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"SON VISSUTO DA FILOSOFO E MUOIO DA CRISTIANO" - L'ultima maschera di Giacomo Casanova

Nel distretto di Teplice, a nord-ovest della Boemia, esiste un luogo chiamato Duchcov (anticamente Dux) che è possibile considerare un monumento commemorativo del Settecento, in particolar modo per aver fatto da scena all’ultimo atto della vita di uno dei personaggi più controversi, complessi e, allo stesso tempo, rappresentativi di quel secolo: Giacomo Casanova. Un nome che, solo a pronunciare, rievoca sensazioni di fuga e avventura, voglia di oltrepassare le regole e tuffarsi nell’ignoto. Un nome, quello del Chevalier de Seingalt, che si declina, rileggendo le cronache, in nominativi sempre diversi come le maschere umane che volle per sé e per le occasioni che il Fato gli offrì o, a seconda dei casi, gli oppose in un rocambolesco duello all’ultimo suadente intrigo.

Votando l’intera sua esistenza al piacere di un’improvvisazione tout court Casanova, verso i sessant’anni, iniziò tuttavia a cercare la sua Itaca: una meta sicura in cui siglare un personale armistizio con la vita, ridimensionandola, non senza “malpancismi”, a uno status più ordinario e meno ossessionato da passioni e istinti. Ma dove andare? Ancora una volta la casualità delle circostanze gli indicò un sentiero, lungo il quale avrebbe esplorato un mondo del tutto vecchio, ma sul quale mai, prima di allora, si era soffermato: se stesso.

Tutto ebbe inizio con la morte, nell’aprile 1785, del suo protettore Sebastiano Foscarini, ambasciatore della Repubblica di Venezia a Vienna, presso il quale svolgeva mansioni di segretario. Un dramma che scombussolò la rotta di Casanova, lasciandolo ancora naufrago in balia di un mare oscuro. Fu per lui una lancia di salvezza, però, aver conosciuto poco tempo prima, proprio alla tavola del Foscarini, il conte Joseph-Charles Emmanuel di Waldstein, il quale, spinto da uno slancio di generosità e impietosito forse dalla condizione precaria del vecchio avventuriero veneziano, gli volle offrire un impiego come bibliotecario presso il proprio castello a Dux, dove, in cambio di 1000 fiorini, avrebbe curato i 40mila libri del fondo di famiglia.  Casanova accettò l’incarico e raggiunse la sua nuova sede agli inizi d’autunno del 1785. Da quel momento ebbe inizio l’ultima aria di un’opera dal gusto agrodolce, più lenta rispetto agli allegretti frizzanti e audaci che caratterizzarono gli anni giovanili dell’avventuriero.

Dux, raffigurata all'epoca del Casanova

Esperto conoscitore del paesaggio umano, Casanova subì Dux, senza mai condividerne il sentimento di stantio che dovette caratterizzare quell’angolo disperso d’Europa, distante dalle dinamiche che di lì a poco avrebbero sconvolto il vecchio continente, consegnandolo definitivamente al progressista e industrializzato Ottocento. La profonda passione per l’animo umano, entro cui Casanova seppe giostrarsi in più esperienze, ebbe una tragica battuta d’arresto di fronte a una comunità, quella del castello, profondamente chiusa nella mente come nel cuore, a cui il veneziano non intese per nulla adattarsi, riversando sul suo stesso “io” l’interlocutore più prossimo con il quale condividere pensieri ed emozioni. Le stesse espresse a chiare lettere in molte missive, tante delle quali trasmesse agli amici, vicini o lontani, e tutte rassegnate a divenire un lunga testimonianza degli ultimi anni di Casanova. Al suo amico praghese Johannes Ferdinand Opiz, ispettore delle finanze imperiali e reali di Boemia, scrisse: “Sappiate che non sto a Dux per mia scelta. Dio m’ha mandato qui per punirmi dei miei errori. Ma lo stesso Dio m’ha dato degli amici. Questi è impossibile sceglierli, perché è impossibile sapere se quelli che abbiamo scelto lo siano davvero”.

È facile immaginarsi lo stato d’animo di Casanova costretto, dalla stanchezza e dalla necessità, in un limbo di ordinaria attesa dell’indomani. Il conte Waldstein non era poi molto presente all’interno delle sue tenute, preferendo, da potente signore del suo tempo, animati viaggi lontani e ricchi di frivolezze. La gente di Dux, dal proprio canto, si dimostrò distaccata e anche insofferente alla presenza di Casanova, non ammettendolo mai tra i suoi pari: condizione che, anche volendo, non sarebbe stata mai accettata dall’arguto e raffinato veneziano. Anzi, i rapporti tra il bibliotecario e gli inquilini del castello non furono per nulla semplici, in particolar modo con alcuni esponenti del servidorame, rappresentati dal subdolo maggiordomo Feltkirchner e dal cocchiere Wiederholt. Più e più volte i due attentarono alla calma del vecchio italiano, mandandolo su tutte le furie e lasciandogli persino concludere di abbandonare la residenza di Dux. Il maggiordomo, invidioso della posizione privilegiata di cui godeva Casanova agli occhi del suo padrone, approfittando dell’assidua assenza del nobile, architettò una serie di angherie per screditarlo e consegnarlo al grottesco ludibrio della comunità locale. Tra queste, fu memorabile la volta in cui lo accusarono di aver ingravidato la figlia ventenne del portiere, Anna Dorotea Kleer. Un complotto che per fortuna Casanova, sfruttando la sua sottile sagacia, riuscì a sventare, portando la ragazza a confessare di aver avuto rapporti solo con il pittore Francesco Saverio Schöttner.  E ancora, il bibliotecario si vide ingiuriato un proprio ritratto da epiteti offensivi e attaccato, nel gabinetto del castello, con escrementi. Pur denunciandoli con fermezza, Casanova ebbe sempre a inghiottire amaramente questi atti infamanti, fintantoché non si passò alla violenza fisica quando, durante un alterco, il cocchiere Wiederholt prese a bastonate il veneziano. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nei primi del ’93, dopo il rientro al castello di Waldstein e un dettagliatissimo resoconto dei soprusi subiti, il conte licenziò il maggiordomo, ponendo fine alle brutalità nei confronti di Casanova.

A quei fastidiosi episodi, Casanova ribatteva con un ciceroniano ritiro da otium cum dignitate. Chiuso dalla mattina alla sera nella biblioteca o nello studio, si abbandonava piacevolmente alla lettura, soprattutto dei grandi autori dell’antichità. Era sì spinto da una voglia incontenibile di sapere, ma anche di potersi affermare come scrittore. È così che, ad esempio, nell’estate del 1787, in uno degli ultimi e brevi viaggi, si recò a Praga con la speranza di poter far pubblicare due suoi manoscritti: la biografica Storia della fuga dai Piombi e il romanzo utopistico intitolato Icosameron. Solo il primo ebbe fortuna nel trovare un editore, Schönfeld, mentre il secondo, sovvenzionato a proprie spese, fu un fiasco totale.

L’opera che, in particolar modo, consacrò Casanova nel mondo letterario fu Mémoires de J. Casanova de Seingalt, écrits par lui-même: autobiografia, scritta in lingua francese, nella quale l’autore narrò tutte le vicende capitategli nel corso della vita. Il 10 gennaio 1791, il vegliardo di Dux riferì all’Opiz: “Scrivo la mia vita per ridere di me e ci riesco. Lavoro tredici ore al giorno, tredici ore che passano come tredici minuti. Che piacere, ricordare i piaceri. Ma insieme che pena. Mi diverto perché non invento nulla”. Una lunga narrazione che, di sua spontanea volontà, Casanova decise di concludere nell’anno 1772: “Credo – scriveva ancora all’Opiz – che non andrò più avanti perché, dopo i cinquant’anni, non posso raccontare che cose tristi, e ciò mi rende triste. Ho scritto solo per divertirmi con i miei lettori. Ora li affliggerei, e non ne vale la pena”. Il 27 luglio 1792 l’opera era terminata e, con essa, l’esigenza di Casanova di voler andare oltre il tempo, adagiandosi sugli allori della memoria collettiva e, allo stesso tempo, distogliendosi da una vecchiaia che incalzava inesorabile e tremenda.

Con l’avanzare degli anni, infatti, il vecchio veneziano si faceva sempre più irascibile, permaloso e bisbetico, cosicché, come si legge in uno scritto del principe Charles Joseph de Ligne, suo amico: “Non passava giorno in cui, per il suo caffè, il suo latte, il suo piatto di maccheroni, non nascesse qualche discussione nella casa. Il cuoco gli aveva fatto mancare la polenta, lo scudiero gli aveva dato un cattivo cocchiere […] Il curato l’aveva annoiato mettendosi in testa di volerlo convertire; il conte non gli aveva dato il buongiorno per primo; […] ha parlato tedesco e non è stato capito; s’è arrabbiato, e si è riso; ha gesticolato, declamando in italiano, e si è riso; […] ‘Perdio’, diceva, ‘canaglie che non siete altro. Siete tutti giacobini. Mancate ai vostri doveri verso il conte, e il conte, pur punendovi, manca ai suoi doveri verso di me. Ho bucato il ventre del grande generale di Polonia: io non sono nato, sono diventato gentiluomo’.”

Ritratto di Giacomo Casanova dipinto dal fratello minore Francesco (1796)

A queste dure parole è persino possibile associare un volto: quello ritratto, nel 1796, da Francesco Casanova, fratello minore dell’avventuriero. Nel quadro, appartenente alla collezione Gianfranco Pompei, è dipinto il profilo sinistro di un Giacomo Casanova vestito di nero con un colletto bianco, come un perfetto uomo di studi. Il volto è scarno, pallido, proprio di un anziano: un uomo in declino, metaforica rappresentazione del Settecento. Un secolo che, a colpi di ghigliottina, guizzava via con tremendo boato, annientando tutta un’epoca, quella dell’Ancien Régime, tanto amata dal Casanova e dai suoi vecchi amici, riuniti nel ricordo dei bei tempi trascorsi nella dolcezza di un comune libertinaggio. Il conte Gian Giacomo Marcello Gamba della Perosa di Torino scriveva, nel 1795, a Casanova: “Gli amici dell’antico regime sono rari, e noialtri dobbiamo tenerci per mano e dire: tutti contro noi e noi contro tutti; in verità quanto pericolo c’è di essere schiacciati dalla massa, tanto compiacimento si prova a vivere nella stretta cerchia di coloro che si son salvati dall’epidemia generale. […] Viviamo finché possiamo; è necessario che si conservi la razza degli onest’uomini. Voi siete del numero”. E come se ciò non bastasse a incupire il già angosciato animo dell’avventuriero, ecco che la Storia gli rese ancora più sofferenza quando Venezia, la sua amata patria, cadde nelle mani di Napoleone Bonaparte e nel 1797, a seguito del trattato di Campoformio, venne ceduta all’Austria. In una lettera all’amico Pietro Zaguri, anch’egli veneziano, Casanova si lamentò della tragedia della Serenissima come provocata dal malgoverno degli stessi nobili e dall’indifferenza del suo popolo, vittime di nimia felicitas, ossia “troppa spensieratezza”. Alla luce di quanto accaduto, Giacomo Casanova ebbe il desiderio di poter rivedere la sua laguna e, così, chiese al conte Waldstein di potervisi recare. Ottenuto il permesso, fissò la partenza nell’aprile del 1798, ma una grave forma di idrope non gli permise di realizzare il suo desiderio.

In quei mesi di grande sofferenza fisica, Casanova ebbe la vicinanza di molti amici, seppur sotto forma di epistole. Commovente è lo scambio di missive con la giovane Cecilia di Rogendorff, con la quale condivise una profonda e sincera amicizia. Un rapporto ideale, all’interno del quale il veneziano giocò un ruolo non d’amante, bensì quasi paterno, raccomandandole affettuosi consigli persino sul coltivare il vero amore come “quello cui è estraneo il godimento”. Un amore platonico e asessuato di cui solo ora, nel perdere i propri sensi, Casanova si faceva fedele seguace. Non si vide mai con Cecilia. Il vecchio di Dux si ostinava a non vedere nessuno: troppo debole, scarno, senza denti: “Il mio pugno – si legge in una lettera – è paralitico e invalido. Da più di otto settimane non esco dalla mia camera. […] Non ho più sonno, né appetito. Vivo più di medicine che di pane. Pazienza”. Sentiva il fiato della morte addosso. Aveva agognato di morire rapidamente e mai per colpa di “una di quelle malattie che rendono l’uomo triste e disgustato dalla vita”. Negandogli questa opportunità, il Fato volle comunque garantirgli la possibilità di prepararsi nello spirito per l’ultima linea rerum. Il 30 aprile 1798, alla nobildonna Elisa von der Recke, sua ammiratrice e amica di lettere, scrisse: “Sono amministrato e provvisto di tutti i passaporti spirituali necessari a un cristiano per entrare, dopo questa vita terrestre, nel soggiorno dei beati immortali. La morte è un debito che a un uomo d’onore è permesso non pagare volentieri, dal momento che tale debito non è stato da lui contratto, ma dalla natura padrona, e senza il suo permesso”.

Il 4 giugno, adagiato su una poltrona, Giacomo Casanova, il famoso avventuriero girovago dai mille e più volti, “ricevette – come annotò il principe de Ligne – con grandi gesti e qualche sentenza i sacramenti e disse: ‘Gran Dio e voi tutti, testimoni della mia morte: son vissuto da filosofo e muoio da cristiano’.” Fu sepolto nel cimitero nei pressi della chiesetta di Santa Barbara, distrutto successivamente negli anni ’30 del Novecento: delle sue spoglie si persero le tracce. Il sipario discese sul grande teatro del Settecento: un palco sul quale, accanto a re, regine, generali, curati, borghesi e popolani, recitò Giacomo Casanova, una figura “mitologica”, metà uomo e metà vento, mezzo avventuriero e filosofo, distratto perennemente dal piacere di scoprire e dall’esplorazione di nuovi confini, sia geografici o propri dell’esistenza stessa. Pazzo di voglia di vivere, lontano dal giogo della noia, vero guastatore della rassegnazione umana.

(Articolo pubblicato sul Volume 7 di CIAOPRAGA)

In copertina: Ritratto di Giacomo Casanova (1760), inizialmente attribuito ad Anton Raphael Mengs e poi a Francesco Narici. Il quadro (olio su tela), fu scoperto nel 1952 a Milano e passò, in seguito, a far parte della collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami.