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QUASI TRE - Intervista a Tommaso Avati

Tommaso Avati è un giovane cinquantenne al suo secondo romanzo, dopo una vita passata a scrivere sceneggiature per il cinema e la televisione.

Le persone a lui più vicine, quelle fortunate con cui pare l’autore abbia condiviso negli anni le sue storie inedite, lo sapevano che prima o poi sarebbe arrivato il momento, per lui, di vivere appieno il suo talento e condividere con il mondo esterno la sua voglia e abilità di raccontare storie, toccando in profondità l’animo dei lettori, facendoli identificare nei suoi personaggi, facendoli sorridere ma anche commuovere.

Se il primo libro dell’autore Ogni città ha le sue nuvole ci ha portati tutti indietro fino agli anni della nostra adolescenza, dell’irrequietezza del momento della crescita e della definizione della personalità, dell’imbarazzo dell’incontro con gli altri e delle piccole grandi vittorie personali, con Quasi tre Tommaso Avati ci fa crescere con lui e ci catapulta con la sua raffinata ironia nel quotidiano, talvolta drammatico, della vita adulta, delle scelte che paiono ormai limitate dall’età anagrafica e dalla biologia, delle dinamiche ormai consolidate eppur distruttibili tra genitori anziani e figli diversamente giovani, delle previsioni e speranze disattese e i sogni che ancora ruggiscono in petto.

Roma è ancora una volta la città in cui la storia si sviluppa: la Roma di Tommaso, bolognese di origine, romano di adozione, appassionato della descrizione leggera eppure attenta della Capitale come teatro degli eventi di cui ci rende parte; la Roma protagonista anche di tante delle sue bellissime foto (consigliatissimo seguire @tommasoavati su Instagram, ndr), perché chi ha il dono di saper raccontare storie sa farlo in tutte le forme dell’arte e della comunicazione. E allora abbiamo voluto farci raccontare da Tommaso stesso che storia è Quasi tre, un romanzo con un titolo che reca già in sé il senso dell’attesa.

Tommaso, prima di tutto grazie per questa intervista rocambolescamente organizzata da una parte all’altra d’Europa. Raccontaci di cosa parla il tuo nuovo romanzo. 

Quasi tre è una storia sulla vita di coppia. Sul matrimonio. Sulla difficoltà di vivere insieme. Su cosa pensiamo davvero dell’altro, cosa l’altro pensa davvero di noi e su come spesso queste immagini che ci costruiamo nella mente possano essere distorte. 

Non è una storia d’amore; è una storia sull’amore, disincantata, molto poco edulcorata, che cerca di dire il più possibile il vero di quello che pensiamo realmente del nostro partner, nel bene e nel male, con onesta crudeltà e con ironia. Ecco il perché del doppio punto di vista: di lui e di lei. Per entrare nelle loro menti con il massimo realismo. Senza infingimenti. 

Quindi il vero tema del romanzo è il matrimonio?

Il vero tema del romanzo è la comunicazione, come cambia cioè quello speciale tipo di comunicazione che è quella matrimoniale. “Di cosa parliamo quando siamo sposati?”, parafrasando Carver questo potrebbe essere il sottotitolo del libro. Cosa ci diciamo veramente, ad esempio quando rientriamo a casa tutte le sere alla stessa ora dal lavoro e nostra moglie o nostro marito è sempre lì, al solito posto, a farci sempre la stessa domanda e noi rispondiamo sempre alla stessa maniera, dopo anni e anni, e sappiamo già perfettamente cosa dirà dopo e dopo ancora, e come lo dirà e che faccia farò e con che tono, ecc.

È inevitabile che sia così, accade in tutti i matrimoni. In tutte le vite vissute in due c’è sempre un po’ di noia, di ripetizione, c’è sempre una buona dose di prevedibilità. Ma è ancora comunicazione questa? Soddisfa le nostre necessità di interloquire, di non sentirci soli? La ripetitività quotidiana dei gesti e dei discorsi che significato ha? Cosa arriva davvero a noi? Che uso debbo farne, io marito o io moglie? 

E il romanzo in realtà cerca di rispondere a questa domanda:

“cosa accade se improvvisamente all’interno di questa ripetitività e di questa routine inevitabile e apparentemente logorante si inserisce un imprevisto?”.

Benedetta, la moglie di Lele, scopre di essere incinta a 46 anni. È una gravidanza che voleva sì, ma dieci anni prima, e in parte; ora ovviamente sconvolge gli equilibri, cambia tutto.

Tommaso Avati

Si tratta di una storia dai risvolti autobiografici?

Ho scritto questa storia perché parla di un periodo della mia vita molto particolare in cui io e mia moglie non riuscivamo ad avere figli. È un’esperienza dura, soprattutto per le donne sicuramente, ma lo è anche per un marito, per un aspirante padre, la cui figura è spesso un po’ sottovalutata. Ecco perché ho voluto scriverla a due voci: perché per me, da quel punto di vista, erano entrambe parimenti significative. Non volevo trascurare nessuno dei due, perché entrambi vivono questo problema in maniera diversa ma importante, con effetti profondi. In quei momenti non pensi ad altro, fare un figlio diventa il tuo unico problema, la tua ossessione. E ti rendi conto che tutto attorno a te complotta per farti sentire inadeguato, dagli amici e le amiche che sembra decidano di diventare tutti genitori proprio in quei giorni, ai tuoi famigliari che non capiscono la situazione e riescono sempre a dirti la cosa più sbagliata nel momento peggiore. Insomma per chi ci è passato, sa che è una fase della vita di coppia molto complicata. E ci si sente in colpa sempre, per se stessi, per non essere all’altezza delle proprie aspettative ma anche per l’altro. Ci si sente inadeguati. Si sente di avere deluso tutti.

Questo romanzo ha qualcosa di cinematografico, forse nei dialoghi. Sei d’accordo?

In realtà volevo scrivere senza pensare a cosa scrivevo, alla trama, ai fatti, alla storia, ma pensando più che altro al flusso di coscienza. Volevo andare avanti senza pensare, come avevo fatto nel primo libro, al cinema, e a scrivere una storia che avesse una successione di eventi cinematografici. Volevo pensare solamente ai dialoghi, alle psicologie dei personaggi, solo a quello, cercando anche per una volta di immergermi soprattutto nel personaggio femminile, di essere lei, di immaginarne i pensieri, di immedesimarmi il più possibile e cercare di comprendere i cambiamenti, le sensazioni, anche sulla pelle: cosa succede in una donna che non può avere figli, che fallisce in questa che è la sua funzione biologica forse più importante? Come reagisce? Come sopravvive? Che strategie mette in atto? E quanto può andare avanti? E cosa capisce lui, il suo compagno, di tutto questo? Lui che a sua volta ha fallito perché in questa coppia non si sa chi dei due non può avere figli. Come si giustifica lui? Come va avanti? Che strategie mette in campo? Che pensieri le attribuisce? Partecipa del suo dolore? Lo sottovaluta? Sottovaluta il proprio? 

Cosa vorresti restasse in chi legge?

Vorrei che le persone che non sono riuscite ad avere figli, e ce ne sono tante, abbandonassero il senso di colpa e provassero a considerare che non è stata colpa loro. Non è stata colpa di nessuno. Solo della natura. Anche se il loro matrimonio è saltato, non è stata colpa loro. Perché  vivere un matrimonio senza riuscire ad avere figli ha qualcosa di eroico, e quelle coppie sono molto speciali, molto diverse da quelle che hanno procreato, che ci sono riuscite. Loro hanno in realtà qualcosa in più, e non in meno. E insomma, a prescindere da come vanno a finire le storie di queste coppie, a prescindere dal fatto che restino insieme o che scoppino, volevo idealmente abbracciarle ed esprimere la mia solidarietà.

Vorrei poi provare a spezzare una lancia in favore di quei matrimoni e quelle unioni che a volte sembrano un po’ noiose, ripetitive, spente; e vorrei che con la loro apparente apatia, nonostante tutto, nonostante le apparenze, fossero rivalutate. Perché ho paura che quella sensazione di noia possa essere figlia della insoddisfazione di oggi, l’insoddisfazione del nostro tempo, il volere cioè sempre di più, cercare sempre di meglio, come se la vita in cui viviamo fosse uno zapping continuo dove il canale successivo può essere sempre migliore di quello attuale. Non vorrei insomma che passasse il messaggio che si può fare zapping anche con le persone. Poiché in realtà, dietro a quella routine, dietro a quella piccola noia, dietro a quella ripetizione di parole e gesti sempre uguali, a volte potrebbe nascondersi la rassicurante solidità di chi ti rimarrà accanto per sempre. E non è una cosa così scontata. 

Grazie Tommaso per aver saputo raccontare a due voci, con serietà e ancora una volta con la tua tipica sottile ironia, un tema così importante e delicato. Anche questa non è una cosa così scontata.   

Tommaso Avati (Bologna 1969) si è laureato in Comunicazione con una tesi sui racconti di Raymond Carver e il cinema di Robert Altman. Ha collaborato a sceneggiature e soggetti come La prima volta di Massimo Martella e Quell’estate di Guendalina Zampagni e alla stesura di diversi film tv come Un matrimonio, Il bambino cattivo, Con il sole negli occhi, Le nozze di Laura. Ha scritto insieme al padre il soggetto per il film Il ragazzo d’oro, che ha vinto il premio per migliore sceneggiatura al festival di Montreal.

Vai su Spreaker per ascoltare un’intervista radiofonica all’autore

Immagini per gentile concessione di Tommaso Avati