QUANDO I MURI DI ROMA DIVENTANO FOGLI DI POESIA - Intervista a Er Pinto
Pe supera’ ogni tipo de scojo
e tene’ a bada la malinconia
i muri de Roma diventano ‘n fojo
che tutti i dolori se portano via.
Il pennarello dietro a quelle parole mirate, ma scritte per tutti, che tra i muri della Capitale accompagnano la vita quotidiana di milioni di romani si chiama Er Pinto: poeta anonimo nato al Trullo, quartiere periferico della stessa Roma. Sceglie l’anonimato per una questione di libertà, grazie alla quale può svincolarsi dall’immagine e dal proprio nome reale per riuscire a proporre la sua vera essenza, quella più interiore.
Er Pinto: da dove nasce questo tuo nome d’arte e come sboccia il tuo amore per la scrittura, in particolare per la poesia?
Il mio nome d’arte nasce da un nickname con il quale mi ero iscritto, i primi tempi, su Facebook. Successivamente, nel 2010, quando entrai a far parte dei Poeti der Trullo, collettivo del quale non faccio più parte dal 2016, dovetti scegliere uno pseudonimo e visto che i miei amici più stretti erano ormai soliti chiamarmi con questo “nomignolo” lo mantenni.
Mi piace, però, che ognuno riesca a dargli la propria interpretazione, tra le più interessanti mi è stato chiesto se fosse per il collegamento con la Pinta di birra o con il verbo “pintar” che in spagnolo significa “dipingere” e nessuno dei due sillogismi mi dispiace. Ho sempre avuto un debole per le rime e i giochi di parole, amo chi sa usare bene le parole. Non a caso uno dei miei generi musicali preferiti è il rap.
Sono entrato in contatto con la scrittura ai tempi del liceo quando tra i banchi o addirittura proprio “sui banchi” io ed i miei compagni di classe scrivevamo testi rap, parodie di canzoni o striscioni da stadio, poi in maniera più seria quando cominciai a pubblicare le mie cose sul web e capii che c’erano persone che le apprezzavano molto.
La poesia è un modo di vedere le cose, il modo più bello per esprimere dei concetti che a volte sono difficili, astratti o così intimi e profondi che non possono non essere già di per sé poetici.
Nel tuo sito c’è la sezione dedicata appunto alla Street Poetry: come sei arrivato a decidere di condividere i tuoi pensieri, anche più intimi, con persone comuni e a te estranee, quali noi, passanti?
I muri sono sempre stati usati come mezzo di comunicazione a partire dagli uomini primitivi fino ad arrivare ai giorni d’oggi.
Spesso hanno accolto espressioni di vario genere: proteste, dediche d’amore, disegni e diverse forme artistiche, dagli affreschi ai graffiti alla street art. I muri hanno dato voce soprattutto ai più umili, non a caso il famoso detto recita: muri puliti, popoli muti.
Scrivere dei versi sui muri è un modo per racchiudere tutto questo e condividerlo con chi, con degli occhi attenti, riesce ad entrare direttamente in connessione con i pensieri più intimi e più istintivi di chi ha scritto.
La Street Poetry è una fusione tra il writing e la poesia, dove il pennarello segna sul muro un pensiero, ha una lettura più universale che valorizza il contenuto e non soltanto la firma o il tratto come in una “tag” che spesso resta comprensibile soltanto ai cultori di quell’affascinante disciplina.
Poi c’è il Pasquino che è da sempre la voce del popolo di Roma: anche lui, come i graffitari, scrive dietro uno pseudonimo. Mi piace pensare che la Street Poetry possa essere un misto tra una “Pasquinata” e una tag.
Correggimi se sbaglio, ma credo che come tutte le altre forme di arte di strada, dalla danza ai graffiti, anche la Street Poetry si pone al mondo come forma creativa per aiutare, rima dopo rima, gli animi, sia quelli più deboli che quelli apparentemente forti, ad accrescere la loro forza interiore. Proprio per questo vorrei sapere se, tra tutti i tuoi followers sui vari social e lettori, hai avuto testimonianze di persone che hai emozionato e magari anche aiutato con le tue parole?
Mi è capitato spesso di ricevere dei messaggi in cui venivo ringraziato perché le mie parole erano servite a qualcosa per qualcuno; c’è chi le ha dedicate, chi se le è addirittura tatuate.
Penso che il processo artistico sia come un cerchio, dove chi osserva parte dal punto zero per poi conoscere, venire arricchito dal mondo circostante riuscendo, in seguito, a trasformare tutto ciò in qualcosa di “leggibile” o interpretabile da altri. Nel momento in cui anche una sola persona riesce ad apprezzare quel qualcosa, il cerchio si è chiuso e quello che “l’artista” ha preso o ha appreso dal mondo in quel momento è stato restituito in una nuova forma.
Credo che l’obiettivo della poesia, come quella di altre forme di arte che siano di strada o meno, sia la condivisione, far riflettere, emozionare, pensare e anche dire: “Questo non mi piace” perché è comunque un modo per ragionare su cosa invece ti piace, quindi uno spunto.
Nel tuo libro Il peso delle cose mi sembra di capire che parli dei colori delle cose come soluzione e riscoperta del vero senso di tutto ciò che viviamo quotidianamente. Spiegaci nel dettaglio cosa intendi.
In realtà il colore è inteso come sfumatura. La poesia sta nel punto di vista delle persone, possiamo far sì che le cose possano avere un colore e quindi una sfumatura diversa ed è grazie a questo “colore” se riusciamo a distinguere le cose importanti da quelle meno importanti, riuscendo, appunto, a valutare “Il peso delle cose”. La poesia di oggi sta nel valorizzare i piccoli gesti che man mano vengono meno per colpa della frenesia del nostro tempo: “La poesia diventa un gesto gentile, una carezza, un favore, un abbraccio, un bacio, una frase, una canzone, un muro colorato. La nuova poesia è il punto di vista. Ed è il punto di vista a evidenziare il colore delle cose. Ed è grazie al colore delle cose che alcune volte riusciamo ancora a decifrarne anche il loro peso.”
Hai mai pensato di rendere ancora più vive tutte quelle parole che parlano tra i muri dell’eterna Roma, magari creando un corto cinematografico sul tema della Street Poetry?
Non ho mai preso in considerazione questa possibilità ma sarebbe bello collaborare con qualcuno che potesse realizzare qualcosa del genere.
Come ultima domanda, per farti conoscere meglio da tutto il popolo romano e non solo, ti devo chiedere: sei laziale o romanista?
Sono Romanista. Ultimamente mi è capitato di scrivere con Ariele Vincenti alcune parti di uno spettacolo teatrale su Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma dello scudetto del ’83.
Devo ammettere che faccio sempre più difficoltà a seguire il calcio, credo che il bello del calcio non sia la partita in sé ma la cornice che fanno i rituali legati ad essa: le curve, le coreografie, i cori, le trasferte, gli sfottò, le birre, i borghetti. Il calcio ormai è un’industria di soldi e questa parte bella non è più così bella come lo era prima. E non credo che sia soltanto perché sono diventato un po’ più grande.
Se domani i miei amici dello stadio mi dicessero di tornarci, o di andare in un pub a vedere la partita, sarei comunque il primo ad aggregarmi.
Meraviglia: è l’unica parola che ho in testa da quando mi hanno fatto scoprire le frasi di Er Pinto sui muri di Roma. Quando ne trovi una, finisci per cercarne un’altra e poi un’altra ancora, perché come ci dice Er Pinto: “…delle emozioni, diventa turista”.
Potete seguire Er Pinto anche su Instagram
In copertina: Disegno da Il Peso delle Cose
(Immagini per gentile concessione di Er Pinto)