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PAOLO ROSSI - Quanto dura un attimo

Era un idolo e fu squalificato. Tornò e diventò il Pablito del Mundial di Spagna ’82. Così si può riassumere la storia di Paolo Rossi che, dal 1980 al 1982, visse i due anni più duri ed esaltanti della sua vita. Una favola a lieto fine, intrisa di successi eclatanti alternati a dolori laceranti, di forti impennate e rovinose cadute, di sogni realizzati e ferite profonde, di preziosi riconoscimenti e ingiustizia subita. È il bianco e nero di un’esistenza eccezionale, il copione perfetto di un film che ha incantato generazioni e continua a essere rivisto e rivissuto dal pubblico.

Scritto a quattro mani con la giornalista Federica Cappelletti, il suo nuovo libro Quanto dura un attimo è l’autobiografia di un ragazzo che ha sfidato la sorte fino a diventare leggenda, realizzando il suo sogno di bambino e scrivendo pagine immortali di storia del calcio universale. Di questo e di tanto altro parliamo direttamente con il protagonista di questa vita straordinaria: il Pablito nazionale!

“Quanto dura un attimo”: un libro scritto in collaborazione con sua moglie, Federica Cappelletti. Com’è nata l’idea?

L’idea nasce davanti a un caffè. Era una mattinata grigia, pioveva, ed il rumore della pioggia che cadeva mi ricordava quello dei tacchetti che battevano sul pavimento nel tunnel che separava gli spogliatoi dal Bernabeu di Madrid. Era la finale di Spagna 1982. Italia-Germania. Ancora ho i brividi sulla pelle. Mia moglie mi ha così chiesto di andare avanti con il racconto e poi di raccontarlo al mondo, in un libro, perché divenisse patrimonio di tutti. 

Cosa ha ispirato il titolo?

L’attimo è stata la mia caratteristica da sempre, per me significava anticipare l’avversario. Arrivare prima, andare in gol. Ma l’attimo è anche la felicità che ho provato in quei momenti eterni dei mondiali di Spagna. 

Ha sempre voluto fare il calciatore, oppure da bambino aveva altri sogni?

Il mio sogno era diventare un calciatore, avevo un idolo. Si chiama Kurt Hamrin. Aveva le mie caratteristiche, era un opportunista in campo. Mi piaceva. Ma ho anche meditato di fare il medico. Mia mamma, piuttosto, mi voleva ragioniere. 

Prima di sfociare nella leggenda la sua carriera aveva subito diversi scossoni, provocando forti reazioni della stampa dell’epoca alla notizia della sua convocazione ai mondiali di Spagna. Come visse quel periodo, prima di approdare in terra iberica?

Ho subito una grande ingiustizia nella mia vita, sono stato squalificato (pur essendo innocente) per due anni per non avere denunciato un compagno di squadra e due faccendieri che volevano combinare una partita. La Perugia-Avellino in cui ho segnato due gol: ma solo perché era quello che sapevo fare. Mi pagavano per fare gol, ne ho fatti molti. Quindi la convocazione ai Mondiali di Spagna è stata meditata da Enzo Bearzot e alla fine azzeccata. Ho ripagato il mister della sua sconfinata fiducia e ne vado fiero. 

E qual è, invece, il ricordo più bello che conserva di quella straordinaria avventura che fu il mondiale 1982?  

La squadra, il mister, il senso di famiglia. Di casa. L’affetto che ho sentito da parte di tutti. E poi i tre gol al Brasile. Li sono diventato una leggenda ma a me hanno dato la forza di ripartire a mille. E sono diventato capocannoniere, campione del mondo, scarpa d’oro, pallone d’oro. 

Ad Enzo Bearzot, tra gli altri, è dedicato il libro. Quanto fu importante per lei la sua figura?  

Devo tanto a Enzo Bearzot, gli devo la mia rinascita. Lui sapeva di che pasta ero fatto e ha sfidato tutti dimostrando di avere ragione. È nel mio cuore, dove rimarrà per sempre. 

La vittoria in Spagna contribuì a riportare colore in una Italia che cercava a tutti i costi di lasciarsi alle spalle il buio degli anni Settanta. Come vi accolsero gli italiani, al ritorno?

Il ritorno in Italia fu un delirio tricolore. L’Italia, con quel mondiale, ha ritrovato fiducia, rialzato la testa, gli italiani sono tornati a sorridere. A livello sociologico è stata una vittoria importante. Una delle più importanti della storia. 

Tra i compagni leggendari con i quali ha avuto il privilegio di giocare, ve ne fu uno al quale era più legato?

Sono stato e sono legato a tutti, profondamente. Ma Antonio Cabrini e Marco Tardelli rimangono i più cari. Anche oggi. 

E l’avversario più temuto? 

Il Brasile, senza dubbio. Ma solo prima di quella finale, almeno per me!

Il suo gol più bello?

Il primo con il Brasile che mi ha definitivamente sbloccato. Ma anche gli altri non sono stati male! 

Film: Paolo Rossi, i suoi gol ai mondiali di Spagna

Tra i prestigiosi premi e riconoscimenti ottenuti, quale l’ha resa più felice?

Il Pallone d’Oro, certamente. In Italia siamo solo in cinque ad averlo vinto: Omar Sivori nel 1961 (nato in Argentina ma nazionale azzurro al momento del riconoscimento); Gianni Rivera nel 1969; poi io nel 1982, Roberto Baggio nel 1993 e Fabio Cannavaro nel 2006.

A cosa si è dedicato una volta “appesi gli scarpini al chiodo”?

Faccio il commentatore, ho un resort in Toscana (a Poggio Cenina), ho fatto il costruttore, produco olio e vino. Scrivo libri con mia moglie giornalista (ride, ndr). 

Le piace il calcio odierno? Quanto è cambiato in quarant’anni?

Il calcio odierno mi piace, è più veloce. I cambiamenti ci sono stati, molti, profondi, a cominciare dalla gestione dei cartellini e dei giocatori. Ma è giusto sia così, anche il calcio si sta adeguando alla modernità. 

Si rivede in qualche calciatore di oggi?

Non ci sono molti giocatori con le mie caratteristiche. Forse uno che si avvicina è Mertens del Napoli.

Ha qualche rimpianto?

Nessuno. Ho fatto quello che volevo fare, ho realizzato un sogno, ho vinto tutto quello che c’era da vincere. 

In copertina: Paolo Rossi e Junior, Italia-Brasile, Spagna 1982
materiale visuale per gentile concessione dell’intervistato