CIAO MAGAZINE

View Original

DIARIO DI TONNARA - Intervista a Ninni Ravazza

Un velocissimo e tenace nuotatore, ogni primavera giunge al Mediterraneo dall’Oceano Atlantico. È il tonno rosso, da sempre uno dei simboli del nostro mare, da quando lo Stretto di Gibilterra erano le Colonne d’Ercole. Ad attenderlo, il pescatore. Non un pescatore qualsiasi, non una morte qualsiasi, ma il tonnaroto: il confronto con lui, la mattanza.

Nel libro Diario di Tonnara, l’autore siciliano Ninni Ravazza ci racconta della tonnara di Bonagia (nei pressi di Trapani), nei vent’anni in cui è stato sommozzatore dal 1984 al 2003, dei suoi “rais” (termine arabo che significa capo, comandante), dei tonnaroti, dei rituali e della fatica di un mondo ormai destinato a scomparire. Un mondo cadenzato naturalmente da ciclicità, da cui non è affatto caratterizzata la scrittura. La suggestione epica dell’intensità del mare, dei suoi protagonisti e delle sue leggende, si contrappone con forza alla quotidianità e alla ripetizione. Perché il mare è sempre in movimento e la sua voce è una eco di cui sa magistralmente raccontare Ravazza, scrittore e uomo di mare.

Il mondo di cui parla in Diario di tonnara è intriso di nostalgia. Non trova che lo sia non solo perché è cambiato e dunque destinato a scomparire, ma forse perché è intrinseco di “sicilianità”?

No, qui la sicilianità non c’entra che in minima parte. Il “linguaggio” della tonnara è universale, nel senso che accomuna tutte le comunità del Mediterraneo che hanno praticato la pesca del tonno. Termini, usanze, credenze, tecniche, sono simili, spesso identici, in Sicilia, Sardegna, Calabria, Spagna, Libia, Marocco, Portogallo, Tunisia, Francia… ovunque siano state calate tonnare. Rais, arraez, raisi:  un solo nome per tanti mari.

Nostalgia, sì, tantissima, perché in quel mondo c’erano millenni di lavoro, cultura, sapere empirico, che ormai stanno scomparendo. Le tecniche moderne – satelliti, radar, sonar, GPS – hanno reso inutili le conoscenze antiche, ove ancora si pesca. In Italia ormai resistono solo le tonnare del Sulcis, scomparse le siciliane e con esse la tradizione e la cultura di chi ha esportato l’arte di calar tonnare in tutto il mediterraneo.

I riferimenti alla pesca, nella mitologia e nella letteratura sono infiniti, ma mi piacerebbe fare un riferimento più vicino ai nostri tempi e ricordare De André, nella cui canzone Le acciughe fanno il pallone troviamo pure l’elemento onirico della pesca e del mare. Un verso recita: “In mare c’è una fortuna / che viene dall’oriente / che tutti l'hanno vista / e nessuno la prende…”. Una fortuna che sembra portare anche la conquista di qualcosa che sfugge, come l’amore.

Tutto il mondo delle tonnare affonda le radici nella mitologia, De André arriva solo ieri. Nei comportamenti dei rais e dei tonnaroti ritroviamo l’Omero dell’Iliade e dell’Odissea, la lotta dell’uomo contro il fato e la natura, i suoi rapporti con le potenze numinose da cui dipendono le sorti della pesca. C’è anche il Virgilio dell’Eneide, che ha scritto delle regate attorno allo scoglio Asinelli, proprio dove calava la ricca tonnara di Bonagia, e Apollonio Rodio con i suoi Argonauti, che sfidavano le rocce alla ricerca del vello d’oro come i tonnaroti a remi e vela sfidavano le procelle alla ricerca dei tonni.

C’è un possibile parallelo tra la pesca e l’amore nel racconto epico del mondo delle tonnare?

Eros e Thanatos: amore e morte. La tonnara è amore e morte. I tonni muoiono nel momento più alto degli amori, quando si riuniscono in grandi branchi per la riproduzione. Continueranno a fecondare le uova anche dentro le reti, fino all’ultimo quando vengono trafitti dagli uncini. È la vita che sopravvive alla morte. Per significarlo, i tonnaroti intrecciano gialli fiori di primavera nella rete dove avviene la mattanza. I fiori della rinascita della natura dopo l’inverno per accompagnare i tonni alla morte, che sarà la vita per la comunità dei tonnaroti.

Mattanza a Bonagia: foto di Ninni Ravazza

La mattanza di cui ci parla in Diario di tonnara è in realtà una lotta nobile tra l’uomo e il pesce. Vi sono anche canzoni popolari a riguardo. Io, tonnaroto, uccido il tonno, amo il tonno, lo rispetto. Rimane, dunque, ancora questo elemento nobile oggi giorno nella pesca?

Sempre, l’uomo tonnaroto – quello vero – ha rispettato il tonno, amico/preda.  Nessuna spettacolarizzazione della sua morte come invece è avvenuto purtroppo in tempi quasi recenti in tonnare dove giovani pescatori, senza cultura né etica, sbeffeggiavano i tonnetti catturati per farsi fotografare dai turisti, ignoranti anch’essi della tradizione. “A tutti li tunni cercamu pirdonu”, cantavano i tonnaroti di Pizzo Calabro: perdono per la loro uccisione. Era una questione di vita, di sopravvivenza, non di spettacolo.

Sono stata recentemente in Grecia e mi è capitato di sentire i richiami dei pescatori, naturalmente in greco che è una lingua che non conosco. Ma le posso assicurare che il suono mi era molto familiare.  Era forse la voce del mare? Esiste una cosa simile?

I pescatori di pescespada nello Stretto di Messina “parlano” con i pescispada che inseguono con una koinè che appartiene solo a loro, di chiara origine greca. Tutti i pescatori parlano una lingua che è loro comune, così come lo sono i gesti. Se sono diverse le parole, non lo sono i suoni e la gestualità… Il mare è un denominatore comune che crea una sua lingua comprensibile ai suoi frequentatori.

Immagine dal film Diario di Tonnara

Cosa distingue la gente di mare dal resto del mondo?

Il rapporto con la natura, con una forza che non possono vincere ma solo assecondare. E poi un approccio che ha due facce opposte. Vi è la solitudine del pescatore che lavora da solo con la sua barchetta e la coralità degli equipaggi in caso di pesca più complessa (la rete da circuizione, lo strascico, ma soprattutto la tonnara): qui ognuno è parte di un tutto, se si pesca bene è bene per tutti, se la pesca va male lo va per tutti. Non c’è uno che vinca se gli altri perdono. Inoltre, c’è la solidarietà tra gli uomini di mare: anche acerrimi nemici si aiutano se succede qualcosa in mare: è una regola etica non scritta.

Lei racconterebbe dunque anche una storia di mare ambientata in un altro Paese?

Credo che le storie di mare siano le stesse in tutti i Paesi. Non dimentichiamo che c’è stato un momento in cui qualcuno credette di potere ambientare l’Odissea, poema epico mediterraneo per eccellenza, nei mari del nord Europa!

Il giovane regista Giovanni Zoppeddu, ispirato dal suo libro, ne ha realizzato un docu-film omonimo di cui lei è anche voce narrante e protagonista. Come è avvenuto il vostro incontro?

È avvenuto per caso: lui cercava chi potesse fargli capire l’anima della tonnara per il suo film, a me piace raccontare a chi sa ascoltare e capire. Alla fine, la sua sensibilità enorme lo ha messo in condizione di leggere la tonnara nella sua essenza intima e di tradurre questa lettura in una storia cinematografica di enorme impatto emotivo, dove la tonnara diventa la metafora della Sicilia e del rapporto tra uomo e mare e intima cultura di un popolo.

Il lungometraggio racconta delle tonnare siciliane degli anni ’30 e mostra dei filmati dell’Istituto Luce, di maestri come Quilici, De Seta e Alliata. In che modo il lavoro cinematografico completa il suo racconto?

Sono due arti diverse che trovano una sintesi perfetta. La scrittura e la visione si completano. Il mio è un diario personale che comprende la moltitudine di tonnaroti con cui ho operato, mentre il film di Giovanni parte dalla comunità – anima collettiva – per approdare alla silenziosa supplica del tonnaroto singolo, che si chiede se mai più rivivrà quel mondo.

Il film è stato presentato in anteprima al Festival del Cinema di Roma 2018, un approdo senz’altro di grande rilievo, ed ha iniziato dal Catania Film Festival il suo tour per l’Italia. Come sta rispondendo, il pubblico, alla proiezione nelle sale?

Sta rispondendo molto bene, anche perché chi già temeva un profluvio di sangue e mattanze si è trovato ad assistere alla sublimazione di un’attività certamente cruenta che viene tradotta e offerta come un grande omaggio all’uomo, al pesce e alla natura.

Video: la tonnara del Secco

Il suo ultimo libro s’intitola San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I diari del ‘Secco’ una lunga storia d’amore. Ci può accennare qualcosa sulla Tonnara del Secco?

La tonnara del Secco è una delle più belle del mondo ma, purtroppo, gli stabilimenti sono quasi tutti crollati per una intricata vertenza giudiziaria. Fortunatamente, l’amore e la passione degli antichi proprietari, le famiglie Plaja di Castellammare del Golfo, hanno reso possibile salvare quantomeno la memoria. Hanno conservato gelosamente i Diari di Tonnara degli anni dal 1914 al 1970: diari che riportano non solo gli esiti di pesca, ma gli usi, l’economia, le tradizioni. L’Uomo al centro dei resoconti. Ettore Plaja con le figlie Renata e Manuela, la moglie Idelia, la nipote Valeria, mi hanno messo a disposizione i diari originali e le foto d’epoca, e tutti insieme siamo riusciti a fare rivivere quella piccola e splendida tonnara, in un libro che per me sarà sempre una storia d’amore per quel mare che frequento sin da ragazzino e per le persone straordinarie che mi hanno regalato i loro ricordi e la loro affettuosità.

Ci sarà una nuova collaborazione con Zoppeddu, basata su quest’ultima sua fatica?

Speriamo di sì. Giovanni è un artista, sa tradurre in immagini le emozioni, e il mare di emozioni ne regala sempre tante e belle… e io ne custodisco tante ancora!

Le va di dirci se ci sono altri racconti a cui sta lavorando?

Ho appena consegnato in tipografia due libri: uno sulla pesca del corallo da parte dei sommozzatori e uno sulla tonnara di San Giuliano a Trapani. Sono racconti inediti, storie mai scritte, fotografie mai pubblicate. La memoria del mare.

In copertina: la Tonnara di Bonagia