"AMAZÔNIA" DI SEBASTIÃO SALGADO – Un viaggio fotografico attraverso l'ecosistema più ricco del mondo
In un afoso pomeriggio di agosto, mi sono ritrovata nel cuore della Foresta Amazzonica. Gli alberi erano imponenti, con lussureggianti foglie che scendevano formando cascate, tronchi che salivano verso il cielo e liane che penzolavano come serpenti. I suoni della foresta, lo scroscio dell'acqua che cadeva dall'alto e il richiamo di uccelli sconosciuti, di insetti e altre creature misteriose, hanno accompagnato i miei passi esitanti. All'inizio ero spaventata, non sapendo cosa aspettarmi da questo luogo mitico, attraversato da un fiume maestoso, dai suoi affluenti altrettanto vasti, e sede del più grande arcipelago d'acqua dolce, le Anavilhanas, la cui isola sorge e poi scompare dalle acque scure del Rio Negro. All'improvviso, ho sentito delle voci, lontane, e un dolce canto, che si avvicinava. Facce curiose mi stavano fissando...
Se chiudo gli occhi, sono ancora lì, a godermi l'esperienza multisensoriale di Amazônia, la mostra fotografica di Sebastião Salgado – accompagnata dalla colonna sonora appositamente commissionata a Jean-Michel Jarre – allestita presso la Fabbrica del Vapore di Milano e visitabile fino al 28 gennaio 2024 (data prorogata).
La superficie dell'Amazzonia è dieci volte quella della Francia. Eppure, vaste aree di questo territorio – il 60% del quale fa parte del Brasile – sono state e continuano ad essere distrutte ogni giorno. Della popolazione indigena originaria di cinque milioni di persone (nel XVI secolo) ne rimangono solo 370mila e la loro esistenza è in costante pericolo.
Avere la fortuna di poter ammirare le oltre 200 fotografie scattate da Salgado via terra, acqua e aria in un periodo di sette anni – che ritraggono la vegetazione, i fiumi, le montagne e le popolazioni della Foresta Amazzonica brasiliana – è stata un'immersione totale in una terra magica, oltre che una grande esperienza educativa. Ho scoperto, tra le altre cose, che dei 188 gruppi indigeni che ancora vivono nella foresta e parlano 150 lingue diverse, 144 non sono mai stati contattati.
Il potere distruttivo dell'uomo in questa preziosa foresta è ben noto: prevalgono deforestazione, disboscamento, estrazione dell'oro e allevamenti di bestiame che, insieme alle piantagioni di soia, hanno invaso le terre indigene. Solo l'impenetrabilità della giungla ha permesso ad alcuni gruppi etnici di mantenere le proprie tradizioni. Ed è in questo cuore segreto della "Foresta" che mi addentro.
La prima esposizione che si trova entrando consiste di una serie di lastre di ottone, parte di "Amazônia Touch", progettata per persone non vedenti e ipovedenti. I 21 pannelli permettono ai visitatori di leggere attraverso il tatto e sono stati concepiti in collaborazione con la Fondazione Visio, un'organizzazione dedicata a fornire ai non vedenti un più ampio accesso a varie attività culturali.
Da lì, si è liberi di visitare la mostra partendo da destra o da sinistra, proprio come se si stesse esplorando la foresta.
Le grandi immagini in bianco e nero di vegetazione, fiumi, animali e paesaggi sono appese a diverse altezze e catturano immediatamente i visitatori, trascinandoli in una dimensione ultraterrena. Nell'ampia sala, le fotografie si intervallano a spazi che riproducono le "ocas" locali, le case degli indigeni. Ognuna racconta la storia di una specifica tribù: la Foresta Amazzonica è costituita anche dalle persone che da essa dipendono quotidianamente, ovvero dai primi abitanti di questa regione, che vivono nel cuore della giungla.
Ho visitato ogni "oca" spinta dalla curiosità di conoscere le diverse tribù, accompagnata dai veri suoni della foresta, grazie alla musica ipnotizzante di Jarre: richiami di animali, fruscio di foglie, cascate e canto di uccelli. Ho anche assistito a proiezioni e ascoltato gli indigeni parlare della loro condizione in un mondo sovrasviluppato, dove il denaro e il potere la fanno da padroni.
Passando da una foto all'altra, da una tribù all'altra, sono stata testimone dei loro usi e costumi, anche insoliti. I Suruwahá, ad esempio, sono una tribù che caccia ancora con frecce dalla punta avvelenata e hanno un alto tasso di mortalità, dovuto alla tradizione di ingerire il "timbó", una sostanza molto tossica normalmente usata per stordire le prede durante la pesca. Eppure, all'interno della loro comunità, questo modo di morire è accettato e in linea con la loro cosmologia.
Le immagini delle donne appartenenti a diverse tribù sono quelle che ricordo più vividamente. Sono rimasta ipnotizzata dagli elaborati diademi indossati dalle donne della tribù Zo'é, realizzati con piume bianche di avvoltoi reali. Gli Zo'é sono anche l'unico popolo indigeno del Brasile a portare il "poturu", un labretto di legno posto sotto il labbro inferiore.
Mi sono poi fermata davanti alla foto di una ragazza, Ino Tamashavo Marubo, della tribù Marubo, che indossa diverse collane fatte di gusci bianchi di lumache di fiume che le passano attraverso il naso e le scendono lungo il corpo. Un pappagallo le stringe il pollice. Tra gli indigeni c'è l'usanza di allevare come animali domestici i piccoli di uccelli e animali che essi stessi hanno cacciato, come se fossero diventati membri della loro famiglia.
Un'altra ragazza, proveniente dal territorio indigeno degli Yanomami, ha sottili e appuntiti pezzi di legno che le trafiggono l’area intorno alla bocca e alle narici.
Yara Asháninka (Territorio indigeno Kampa do Rio Amônea), che compare anche sui manifesti di questa mostra fotografica, indossa ornamenti fatti di semi e piume e ha piccoli disegni dipinti sul viso, a indicare che non è ancora fidanzata. Mentre Luísa, dello stesso gruppo, vestita di nero con i capelli decorati e un elaborato braccialetto al polso, siede elegantemente mentre tiene uno specchio tra le mani e si dipinge il viso.
Per questo progetto, Salgado ha improvvisato set fotografici in diversi "angoli" della giungla, utilizzando solo un grande telo nero come sfondo. Ma per gli indigeni, essere fotografati era un'occasione unica e quindi volevano sempre apparire molto curati.
Tra le tribù visitate da Salgado ci sono anche storie di sacrifici, sfruttamento e rivalorizzazione, come nel caso degli Yawanawá. Negli anni '70, la loro comunità contava solo 120 persone. Colpiti dall'alcolismo a causa dei bruschi cambiamenti del loro stile di vita, trattati come schiavi dai proprietari delle piantagioni di caucciù e costretti a rinunciare alla loro lingua e ai loro riti per la fede nel cristianesimo, gli Yawanawá erano destinati a estinguersi. Quando Bira divenne il leader del loro gruppo, all'inizio degli anni '90, espulse i missionari e riportò l'insegnamento della vecchia lingua e delle tradizioni Yawanawá. La popolazione è cresciuta fino a 1200 persone ed è la prova vivente della possibile convivenza di antiche tradizioni (tra cui la loro sorprendente "lavorazione delle piume", come potete vedere nella fotografia in copertina) con il mondo contemporaneo.
Durante la sua carriera di fotografo, Salgado ha fatto parte di numerosi progetti umanitari. Insieme alla moglie Lélia Wanick Salgado, responsabile della curatela e della scenografia della mostra, ha fondato l'Instituto Terra Project, con l'obiettivo di ripristinare parte della Foresta Atlantica in Brasile, situata nella Valle del Rio Doce dello stato di Minas Gerais. Nel 1998, Sebastião e Lélia hanno trasformato questo terreno in una riserva naturale. L'Instituto Terra si dedica alla missione di riforestazione, tutela del territorio e educazione ambientale. Ha anche sviluppato un progetto di preservazione dell'acqua.
Prima di lasciare la mostra, ho letto la biografia di Salgado. Vincitore di numerose onorificenze e premi, membro di varie accademie d'arte e letteratura, Ambasciatore di Buona Volontà dell'UNICEF e fondatore di progetti mirati alla protezione ambientale, ha viaggiato in oltre 100 Paesi e all'inizio della sua carriera, in particolare, in quelli maggiormente colpiti da povertà, carestie e guerre.
Una volta tornata a casa, ho guardato Il sale della terra, un film-documentario sulla vita di Salgado – co-diretto da Wim Wenders e dal figlio del fotografo Juliano Ribeiro Salgado – che ha ricevuto il Premio Speciale al Festival di Cannes 2014. È un ritratto fedele dell’ "uomo" dietro la macchina fotografica, delle conseguenze psicologiche dei reportage su guerre e povertà, della perdita di fiducia nella bontà della natura umana e dei sacrifici affrontati dalla sua famiglia durante le lunghe e frequenti spedizioni fotografiche che lo hanno portato lontano da casa.
Sono ancora sotto l'incantesimo di "Amazônia" e posso assicurare a Lélia che – per me – si è avverato ciò che si augurava per i visitatori: "Amazônia" è "un'esperienza intima che rimane con loro molto tempo dopo aver lasciato la mostra".
In collaborazione con Instituto Terra, questo progetto ha l'obiettivo di piantare 1 milione di piante di 120 specie endemiche nell'arco di 8 anni, sostenendo la crescita sana della foresta nativa. Il progetto coprirà un'area totale di 700 ettari di terreno e garantirà l'autosufficienza e la biodiversità della foresta per i prossimi decenni.
Cliccare qui per ulteriori informazioni su questa mostra.
CREDITI FOTOGRAFICI
In copertina: Yawanawá girl. Acre, Brasile, 2016
© Sebastião Salgado/Contrasto
Galleria: Giovane Ashaninka. Acre, Brasile, 2016 (sinistra)
Yara Ashaninka, Kampa do Rio Amônea, Acre, Brasile, 2016 (destra)
© Sebastião Salgado/Contrasto
Immagini: salgadoamazonia.it
© Sebastião Salgado/Contrasto