MELANIA MAZZUCCO - "Porto le donne fuori dall’ombra"
Melania Mazzucco ha una voce garbata con una lieve inflessione romana (è nata a Roma nel 1966). Racconta i suoi libri - tra cui Vita, con cui ha vinto il Premio Strega nel 2003, Limbo e Un giorno perfetto, portato sul grande schermo dal regista Ferzan Ozpetek - con una narrazione verbale senza sbavature e quello che dice ha un grande senso in questo preciso momento storico, soprattutto per le donne.
Siamo a Hong Kong, la scrittrice è collegata via internet dal suo assolato studio capitolino. L’occasione viene da un incontro, organizzato dal Consolato Generale della Svizzera con la Biblioteca Italian Library e l’Istituto Italiano di Cultura di Hong Kong, per dialogare sulla protagonista del libro Lei così amata, storia di una viaggiatrice, scrittrice e giornalista svizzera a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta.
Melania Mazzucco, da dove parte il suo viaggio alla scoperta di Annemarie Schwarzenbach?
Ho incontrato Annemarie la prima volta attraverso gli oggetti, al Museo Nazionale d’Arte Orientale a Roma, di fronte a un antico manufatto proveniente dall’Iran. Poi nuovamente, senza sapere il suo nome, leggendo l’autobiografia di Klaus Mann, La svolta. Sono appassionata della storia dell’Europa degli anni Trenta e, scorrendo le pagine del libro, a un certo punto compare questa donna perduta, affascinante, forse disperata, di cui il giovane Mann parla con un profondo senso di colpa. Qualche tempo dopo parto per l’Afghanistan e seguo, inconsapevolmente, la rotta del viaggio che Annemarie percorre nel 1933. A questo punto, il richiamo è troppo forte per non seguirlo. Stavo leggendo La via crudele. Due donne in viaggio dall’Europa a Kabul: una era Ella Maillart, l’autrice, l’altra una certa Christine, scrittrice tormentata e dipendente dalla morfina, reduce da una serie di internamenti psichiatrici, alla perenne ricerca di bellezza e assoluto, che poi si è rivelata essere Annemarie Schwarzenbach. È cominciata così una lunga ricerca che mi avrebbe portato alla stesura del romanzo.
Dalle pagine del suo libro emerge una figura complessa, per certi versi contraddittoria. Annemarie è una donna psicologicamente instabile, divorata da demoni interiori che fatica a sconfiggere. Ha molte relazioni tumultuose, un rapporto complicato con la sua famiglia - la madre in particolare - e tenta più volte il suicidio. Nonostante ciò, o forse proprio per questa complessità, lei la ritiene "il simbolo più luminoso di quell’esercito di scrittori minori, dimenticati e sommersi". Perché?
Mi ha sempre affascinato il destino della generazione a cui questa donna appartiene: Annemarie è cresciuta negli anni Venti, nell’illusione delle conquiste femminili. Una generazione dorata, che ha goduto di una sfrenata libertà ma che è anche stata travolta dalla storia con cui si è dovuta confrontare, facendo spesso delle scelte che hanno sovvertito vite e da cui una buona parte di questi scrittori è uscita distrutta. La donna è stata, quindi, testimone della catastrofe europea e ha scelto di mettersi in gioco. Cerco sempre, nei miei libri, di lavorare su singole figure femminili, sul loro grande lavoro intellettuale cancellato dal passato e sulla conseguente scomparsa dalla memoria collettiva.
Quando Annemarie torna dai suoi viaggi parla ogni volta di duplice spaesamento, ovvero di quella dimensione di sospensione nella quale non ti senti a casa da nessuna parte. In che modo, questo aspetto, ha influito sulla sua ricerca della libertà; di volere essere, cioè, “solo se stessa”?
La Schwarzenbach lascia l’Europa nell’autunno del 1933, quindi dopo la presa del potere di Hitler, quando la Germania è per lei diventata invivibile pur avendo trovato, proprio a Berlino, la sua personale espressione. Cerca una patria, uno spazio di libertà altrove. Si avventura in Turchia con un viaggio di lusso sull’Orient Express, poi a bordo di una straordinaria macchina nera con autista di cui ho trovato materiale fotografico negli archivi di Berna. “Stare via” significa, per lei, essere “altra cosa”; significa dare uno strappo alle proprie radici, per immergersi nella terra che vuole conoscere.
In seguito, i suoi viaggi si trasformano. Lavora nei paesi che visita, diventa perfino archeologa per le missioni europee e il suo ritorno a casa, nel 1934, le fa capire che non c’è ritorno ma allo stesso tempo non è possibile vivere altrove. Gira inquieta, va sempre più lontano, fino al 1939 e al famoso viaggio in Afghanistan, che diventa l’espressione dell’altrove. Non c’e orientalismo in questo. Lei vede la condizione delle donne, la loro prigionia e allo stesso tempo è come se fosse diventata l’esule per eccellenza, colei che non può più stare a casa né da nessuna altra parte. In realtà, Annemarie una casa propria non l’ha mai avuta, la cerca - e la trova -in Svizzera poco prima della sua morte.
Lei scrive: “I libri possono cambiare le persone? Influire sulla loro vita? E come influisce la vita sui libri? Come li muta?” Pensa sia realmente cosi?
Chi scrive ha il potere di dare una prospettiva alle cose. Mentre le persone cercano di essere all’altezza dei personaggi letterari che le raffigurano, allo stesso tempo sono i libri che spesso orientano le nostre vite. È proprio il senso della lettura che, citando Kafka, “deve essere un colpo d’ascia”: un libro ti apre al mondo e deve cambiare la vita. Nel 1996 ho scritto Il bacio della Medusa, storia d’amore tra due donne all’inizio del Novecento, in una Italia bigotta e conformista: un testo che affrontava per la prima volta un tema a lungo silenziato nel nostro paese. Ecco, molte lettrici che ho incontrato mi hanno detto che è stato come aprire una finestra: c’è un’altra vita, forse non sono malata, forse ho diritto a essere ciò che sono. Un altro libro, che più di una storia è un atto politico, è Storia di Brigitte, dedicato a una rifugiata congolese con cui ho trascorso due anni e di cui ho voluto raccontare l’odissea del cosa accade dopo, cioè una volta arrivati in Italia come profughi, la vita che si fa, che cosa si trova. Un’esistenza come la sua, fra di noi e i nostri spazi, nelle nostre città, ci interroga profondamente. Brigitte ha dormito settimane per terra alla stazione Termini di Roma senza che nessuno la notasse. Io stessa, che attraversavo quotidianamente quei giardinetti, penso di averla incontrata chissà quante volte, senza vederla. Il libro l’ho scritto per far sì che lei fosse vista.
Nelle sue opere come Vita, Limbo oppure L’Architettrice, dove narra la vicenda di Plautilla Bricci, prima donna architetto d’Europa, le figure femminili sono importanti. Cosa l’affascina di loro? Cosa vuole scoprire?
Mi interessa raccontare ciò che non è stato raccontato. Vita, per esempio, è un romanzo famigliare sulla emigrazione di mio nonno in America, agli inizi del Novecento. Ecco, in quella epopea le donne non sono mai state raccontate ma c’erano. Com’era la vita di una bambina strappata dalle campagne del sud e portata in una grande città come New York? Quale era lo shock culturale di questa emigrazione nello spazio e nel tempo? Che lavoro faceva? Andava a scuola? Veniva sfruttata? Oppure poteva confrontarsi con un mondo più progressista: le donne negli Stati Uniti erano già avanti di cinquant’anni. In altri miei libri ho indagato sulle donne che hanno cercato di fare, nel tempo in cui vivevano, qualcosa che non era stato fatto prima e che allora era a totale appannaggio degli uomini, come la sottufficiale degli alpini Manuela Paris (in Limbo), una comandante di plotone che si trova a dare ordini a 33 soldati. Cosa deve dimostrare? Forse il doppio, per avere la metà.
Di Melania Mazzucco è appena uscito Self-portrait. Il museo del mondo delle donne (Einaudi), in cui l’autrice crea una galleria di capolavori dove la donna è "soggetto due volte", perché concepisce e realizza l'opera e perché ritrae se stessa o un'altra donna.
“In realtà - conclude la scrittrice - sto lavorando da anni a un libro che la pandemia non mi permette di completare. Spero di riuscirci presto”.
L’incontro con questa autrice è stato rivelatorio, e la passione con la quale ci ha guidati attraverso le trame dei suoi libri e la psicologia dei suoi personaggi, a dir poco contagiosa.