HERMAN MELVILLE – Il papà di Moby Dick compie 200 anni
…ho nuotato per biblioteche e veleggiato per oceani…
(H. Melville - Moby Dick)
Il 1° agosto del 1819 nasceva a New York il padre di Moby Dick, una tra le penne più intraprendenti e rinomate della letteratura americana, nonché poeta e critico letterario. Ma non solo: oggi si celebrano anche i 100 anni dalla rinascita di questo magnifico autore, dimenticato dopo la sua morte, avvenuta nel 1891, per poi essere riscoperto attorno al centenario dalla sua nascita, nel 1919. Da allora, la sua fama non conosce confini.
Figlio di un ricco commerciante, Herman Melville sin da piccolo possedeva un forte impulso verso l’avventura. Forse è proprio grazie ai racconti di suo padre che ad oggi abbiamo la fortuna di leggere i suoi racconti, diari ed opere.
Non possiamo che partire da Moby Dick (1851), considerata una delle maggiori opere di narrativa statunitensi e che sicuramente nacque anche dai ricordi dell’esperienza come marinaio sulla baleniera Acushnet. Proprio durante questa avventura, Melville disertò insieme ad un suo compagno nelle isole Marchesi, a nord della Polinesia francese, che divennero teatro di altri due suoi romanzi: Typee (1846) e Omoo (1847).
Dopo altri imbarchi su due baleniere, il soggiorno alle Hawaii, l’arruolamento sulla fregata americana United States ed altre avventure, l’autore scrisse Giacchetta bianca, o il mondo visto su una nave da guerra (1850), chiudendo il ciclo dei suoi romanzi schiettamente autobiografici, iniziato con Typee e Omoo.
Terminata la sua vita marinaresca, Melville rientrò a Boston dove, dopo il matrimonio con Elizabeth Shaw e la nascita dei suoi figli, cominciò a scrivere racconti famigliari e letterari.
Abitò a New York fino al 1850 e, successivamente, acquistò e diresse Arrowhead, una fattoria nel Massachusetts, oggi gestita dalla Berkshire Historical Society. Qui, nella terraferma, concluse Moby Dick e raccontò nei suoi scritti la dura vita nella fattoria e nella campagna. Cominciò così il periodo di opere quali Io e il mio camino, Montagna d’ottobre, Cock-A-Doodle-Doo!, La Veranda e Bartleby lo scrivano (1853): quest’ultimo lavoro, ambientato a New York, è da molti considerato come il precursore dell’opera di Kafka.
La critica, però, in questo periodo non fu molto dolce con l’autore, forse perché troppo legata alle sue meravigliose storie di avventura, capaci di toccare i più disparati temi morali ed etici. Melville, pertanto, smise di scrivere e pubblicare la sua narrativa per dipendere economicamente dal suocero.
Non finì qui, perché si rese anche protagonista di nuovi viaggi in Europa, arrivando fino in Italia e restando ammaliato dalle sue meraviglie, dai mari del sud e dalla sua illustre arte. Nacquero così i suoi poetici diari di viaggio: “(…) siamo entrati nel Golfo di Napoli. Ero sul ponte. L’indistinta massa del Vesuvio fu presto in vista. (…) Ben presto ho sentito la città. Luci brillanti, grandi folle, strade belle, edifici alti. (…) Poi siamo andati a Pompei. È uguale ad ogni altra città. La stessa antica umanità. Che si sia vivi o morti non fa differenza. Pompei è un sermone incoraggiante. Amo più Pompei che Parigi.”
Di pari passo ai suoi diari, cessata la sua carriera narrativa Melville si dedicò anche alla poesia, scrivendo una raccolta dedicata alla Guerra di secessione, Pezzi di battaglia (1866) e successivamente Clarel (1876) , la storia del pellegrinaggio di uno studente in Terra Santa, che può essere considerata la sua più ambiziosa opera poetica, nonostante fosse poco conosciuta ai suoi tempi.
Raccontare di Melville vuol dire, quindi, parlare di un romanziere, un poeta, un avventuriero, ma anche di un critico. Già, perché l’autore non fu soltanto un critico letterario, ma soprattutto un critico inesorabile della coscienza morale. Anche se questo lo si evince in maniera più evidente nei suoi ultimi anni di carriera, quando inizia Storia di Agatha - un progetto mai terminato e in cui Melville esce dal binario della sua creatività per diventare un duro moralista –, già dagli albori dei suoi rimpianti romanzi e racconti marinareschi troviamo un Melville attaccato all’alta morale.
Parliamo del rapporto tra uomo e natura, i confini della coscienza comune e del male. Questi temi toccano anche la sua opera più importante, Moby Dick, che possiamo utilizzare come esempio perché, qui, la forsennata caccia del capitano Ahab alla balena bianca è la metafora del dramma umano che vede gli uomini condannarsi, per propria mano, ad un baratro dove la ragione muore nel tentativo di oltrepassare i propri limiti.
Certamente Melville non sapeva che questa opera grandiosa sarebbe diventata un classico narrativo tra i più letti e amati, tanto che il suo nome è stato affidato - in memoria - ad un cetaceo del miocene: il Leviathan melvillei.
E ancor meno l’autore avrebbe potuto aspettarsi che il suo pensiero rivoluzionario divenisse, oggi, più essenziale che mai. Istintivamente, lo aveva anticipato perché intuiva che la forte superbia dell’uomo e il suo credersi invincibile avrebbe toccato la strada del non ritorno.
Forse non basterà, ma sarà certamente un piccolo passo, rileggere il suo forte e giusto pensiero con delle consapevolezze diverse, perché purtroppo reali.
In copertina:
Illustrazione di James Stewart (1840), Galleria Treitschke, Lipsia (dettaglio)