LA PIÙ BELLA DEL MONDO – Stefano Jossa presenta il suo nuovo libro
Stefano Jossa è un accademico e critico letterario. Nato a Napoli nel 1966, si è laureato in lettere con Giancarlo Mazzacurati presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" nel 1988 e ha conseguito il dottorato di ricerca presso l'Università degli Studi di Pisa nel 1993. Fino al 2007 è stato insegnante nei licei italiani. Nel 2002-2003 è stato Fellow presso Villa I Tatti - The Harvard Centre for Italian Renaissance Studies e nel 2006 Stipendiat presso la Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, in Germania. Dal 2007 lavora presso la Royal Holloway University of London, dove è stato prima Lecturer, poi Senior Lecturer ed attualmente è Reader. Ha tenuto corsi su Dante, Petrarca, Boccaccio, il Rinascimento italiano, Ariosto, il Risorgimento, la costruzione dell'identità nazionale in Italia, il teatro italiano contemporaneo ed ha partecipato a numerose opere collettive. Nel 2017 è stato invitato a ricoprire la cattedra De Sanctis presso l'ETH di Zurigo; è stato, inoltre, visiting professor all'Università di Parma e all’Università di Roma Tre. È stato membro della giuria di qualità del Premio Mondello e della giuria estesa del Premio Strega. Collabora regolarmente all’inserto culturale “alias” del quotidiano “Il Manifesto”, alla rivista “L’indice dei libri del mese” ed al blog letterario “Doppiozero”.
Prof. Jossa, nel suo nuovo libro “La più bella del mondo” spiega perché amare la lingua italiana, tracciando anche un rapporto tra lingua e bellezza. Può dirci qualcosa di più sull’argomento?
Trovo che sulla lingua italiana ci sia una bibliografia ricchissima e sapientissima, ma spesso piuttosto tecnica e abbastanza respingente. La lingua è più interessante nella sua dimensione viva che come oggetto di laboratorio. Insieme all’editore che ha commissionato il libro, abbiamo perciò pensato di ricorrere alla chiave della bellezza, che è un po’ il filo conduttore delle recenti riflessioni artistiche sull’italianità, dalla Grande bellezza di Paolo Sorrentino alla lettura televisiva della Costituzione da parte di Roberto Benigni. Perché pensiamo tanto alla bellezza dell’italiano? Forse perché l’italiano è stato per secoli la lingua del discorso sulla bellezza, come oggi l’inglese lo è per il discorso sull’economia e la finanza, mentre l’italiano è piuttosto diventata la lingua della cucina, dove il suo prestigio è ancora immenso. Chi non sa cosa significhino tortellini e tiramisù, ad esempio? Un tempo parlare italiano suggeriva immediatamente l’idea di star parlando di arte, così come oggi parlare in inglese suggerisce l'idea che l’argomento sia l’economia o la finanza: un filosofo tedesco come Leibniz, che scriveva in francese, sentiva il bisogno di ricorrere all’italiano quando parlava della ”invenzione la più bella”, così scriveva, perché l’espressione designava qualcosa d’intraducibile nelle altre lingue moderne, l’idea della genialità, della creatività e della ricerca del bello. Andrà recuperato allora il nesso tra lingua e bellezza, che sta non certo in formule vaghe ed evanescenti come la musicalità o l’armoniosità dell’italiano, ma nelle pratiche concrete che rendono bella una lingua, a partire dalle filastrocche e dalle rime. La bellezza di una lingua allora starà prima di tutto nella sua letteratura.
La bellezza, infatti, proprio come la lingua, sta nella scelta: nonostante vari tentativi di definire un bello oggettivo, o persino ontologico, il bello è per sua natura legato prima di tutto alla soggettività di chi lo esperisce. Molte cose piacciono ad alcuni e non ad altri: l’unanimità nel campo del bello è quasi utopistica come quella in politica o nel calcio. Bisogna allora riconoscere che parlare di bellezza rispetto alla lingua significa anche parlare della soggettività del parlante, delle sue scelte di come e a chi parlare, della sua capacità di possedere o meno diversi registri e linguaggi. La lingua, così, diventa una questione di stile e lo stile ci definisce esteticamente rispetto al mondo. Io trovo che l’italiano sia un deposito di stile e creatività, cui non possiamo rinunciare per parlare una lingua solo informativa o solo finalizzata a usi pratici: la lingua è divertente, perché ci fa divergere, cioè ci porta su altri sentieri, diversi da quelli attesi e noti. Ciò vale per ogni lingua, naturalmente, ma per noi vale per l’italiano perché è la nostra lingua: che cosa c’è di più bello che l’uso di un possessivo plurale per parlare di bellezza?
Come si sviluppa il libro?
La prima parte è una ricostruzione storica del lavoro dei grandi fondatori della lingua italiana, Dante, Bembo e Manzoni, fino ai dibattiti più recenti che hanno coinvolto Gadda, Calvino e Pasolini. Si passano in seguito in rassegna la varietà dei sinonimi, l’incorporazione delle parole straniere, le filastrocche e le rime, l’uso della metafora, il peso della tradizione e la forza della critica. Mentre lo scrivevo, scoprivo anch’io che la bellezza della lingua è nella sua capacità di istituire associazioni, di costruire mondo e di parlare ben oltre ciò che dice: la lingua non cambia il mondo, ma, se c’è qualcosa che cambia nel mondo, è solo per via linguistica che possiamo registrarlo e comunicarlo.
Qual è il suo obiettivo?
Far capire che la lingua non appartiene solo ai linguisti, ma è un patrimonio collettivo, da coltivare tanto individualmente quanto insieme con gli altri. Tutti saremmo un po’ più creativi, probabilmente un po’ più intelligenti, e forse anche un po’ più felici, se ci divertissimo di più a giocare con le parole e le frasi, a usare la lingua in maniera inventiva e a smontarla per esercitare il diritto di critica. In questo senso il mio libro può essere anche un libro politico, perché prova a immaginare una comunità che si aggrega intorno a un uso non solo passivo della lingua: una comunità di soggetti che condividono le basi del loro stare insieme attraverso ciò che li accomuna, che è prima di tutto lo strumento con cui interagiscono gli uni con gli altri.
Diverse fonti ufficiali indicano l’italiano come la quarta lingua più studiata al mondo dopo l’inglese, lo spagnolo ed il cinese. A cosa si deve, secondo lei, tanto interesse?
Non lo so, a dire la verità, ma ho il sospetto che si debba prima di tutto alla sua storia, al rapporto col latino e col greco, alla sua presenza in molti linguaggi settoriali delle lingue moderne, dalla musica alle arti visive, dal diritto alla politica, dalla moda alla cucina e allo sport.
Prendiamo una parola come “editor”, che oggi usiamo come se fosse un prestito dall’inglese, collegata naturalmente a “editing”. A parte il fatto che la parola è latina e all’inglese arriva dal latino, ciò che di solito si dimentica è che in inglese fu introdotta per designare un lavoro nuovo, quello dell’editore, che aveva bisogno di un nome latino per rivendicare il suo prestigio, certo, ma anche perché veniva dall’Italia, dove l’industria della stampa aveva raggiunto il suo massimo sviluppo. Al latino, quindi, l’inglese è storicamente ricorso in molte occasioni per stabilire un rapporto con l’Italia, la sua cultura, la sua tradizione e le sue iniziative. A quel tempo, il XVI secolo, l’egemonia linguistica nel settore della produzione culturale apparteneva all’italiano: “editor” viene prima di tutto da “editore” (culturalmente se non linguisticamente), anche se i vocabolari per lo più non lo dicono.
La sua esperienza accademica spazia dalla cultura del Rinascimento italiano alla costruzione dell’identità nazionale attraverso il discorso letterario. Quanto è importante, nello studio di una lingua, la sua letteratura?
Qui torniamo alla prima risposta: la lingua, nella sua dimensione creativa e formale, è la sua letteratura. Il bello della lingua è nella poesia, dalle filastrocche e gli scioglilingua fino alle formule più sofisticate dei linguaggi settoriali – giuridico, economico, scientifico, psicanalitico, ecc. Se c’è uno specifico del linguaggio letterario, tuttavia, è proprio la sua continua ricerca di formalizzazione per produrre il bello, qualunque sia la definizione di bello che vogliamo proporre.
A cosa sta lavorando, attualmente?
Al rapporto tra lingua e umorismo, da un lato, e a quello tra cultura letteraria e cultura popolare, dall’altro lato: lo spiazzamento dello sguardo attraverso l’ironia e la presenza della letteratura nei film e nella musica sono entrambi modi per cambiare continuamente punto di vista e includere l’orizzonte dell’altro nel proprio.
In copertina: Stefano Jossa, immagine di Costanza Balmer