IL MUSEO EGIZIO DI TORINO – Intervista al Direttore Christian Greco
Con i suoi 10mila mq e 40mila reperti il Museo Egizio è il secondo più importante al mondo dopo quello de Il Cairo. A guidarlo, dal 2014, è Christian Greco: egittologo, studioso e docente formatosi in Olanda, con all’attivo curatele in Giappone, Finlandia, Spagna, Scozia e naturalmente Egitto.
Il Direttore Greco ci racconta il suo museo come un work in progress in cui le antichità parlano con il presente e il futuro, dove i reperti fisici e le esplorazioni digitali espandono la conoscenza e in cui resta però centrale la narrazione scritta: quei geroglifici che dopo millenni hanno ripreso a parlarci 200 anni fa.
Direttore, il Museo Egizio di Torino è diventato sotto la sua guida molto più moderno e partecipato. Come è possibile rendere contemporaneo un patrimonio millenario?
La linea che ha ispirato me e il mio staff è in realtà l’unica ricetta possibile: la ricerca. La prima volta in cui troviamo la parola museo è in una citazione di Aristotele, non sappiamo nemmeno se ci fossero collezioni di manufatti o naturali, ma sappiamo di certo che era un luogo d’incontro di studiosi che si confrontavano.
Un museo è un luogo di studio disciplinare – per noi l’archeologia è multidisciplinare – ma è anche punto di partenza di scavi, di analisi della cultura materiale, dei suoi scritti, della rivelazione di frammenti inediti, così come dell'affiorare di aspetti antropologici e sociologici. Il museo racchiude lo sviluppo di una società, ed è un luogo della collettività, deputato a preservarne la memoria: non siamo estranei alla società, ne siamo parte integrante, e la memoria è alla base del nostro operare. Mi piace fare un paragone un po’ ardito con una persona affetta da una malattia degenerativa che elimina i ricordi: la sua identità si impoverisce, fa sì che la persona non possa più orientarsi nel presente e progettare un futuro.
La civiltà senza memoria è senza presente e senza futuro. Preserviamo, studiamo per dare risposte adeguate alla contemporaneità, e questo ha permesso di interrogarci sulla cultura materiale e sociale anche con il sussidio digitale.
Avete recentemente celebrato i 200 anni dalla decifrazione della Stele di Rosetta: cosa ha cambiato questo fatto nella conoscenza dell’antica cultura egizia?
È stato un passaggio epocale che ci ha permesso di ‘ascoltare’ l’Egitto, una cultura che ha sempre affascinato: basti pensare a Omero che parla di antico Egitto e a Erodoto: “il padre della storia”, come lo chiamava Cicerone, che dedica il secondo libro delle sue Storie all’Egitto. Finalmente l’Egitto tornava a parlare.
È una civiltà in cui la parola scritta aveva un ruolo preponderante, abbiamo avuto accesso a testi, silenti per millenni, che sono diventati parole vive. Interrogare le fonti, leggere i testi, scoprire fatti, nomi: tutto ciò che era destinato alla posterità. Forse nessuna civiltà ha riconosciuto il valore e si è posta l’obiettivo di tramandare i ricordi alle generazioni future quanto questa.
Leggiamo testi ma ci manca una voce. Ci manca l’oralità. C’è qualcosa che non siamo riusciti a cogliere?
È un aspetto fondamentale. In tutte le civiltà antiche troviamo un rapporto molto forte tra oralità e cultura: poche persone nell’antichità sapevano leggere e scrivere. Per cui quando si parla di scritto, sappiamo che è una narrazione parziale. Basti pensare che su Tutankhamon, forse uno dei faraoni più noti, abbiamo solo una breve iscrizione che dice che lui “è figlio della propria carne regale” ma non sappiamo a oggi di quale sovrano fosse figlio. Questo per dare un’idea della complessità: siamo consapevoli che cerchiamo di ricostruire fatti a cui manca l’oralità.
Oltretutto, nell’Egitto antico si parlava una lingua camito-semitica, senza vocali; noi usiamo una pronuncia egittologica che aggiunge un “e” breve che ci permette di leggere le parole, ma non sappiamo come fosse la pronuncia vera e propria, e ciò resta un problema.
Nell’immaginario collettivo il Museo è fatto di grandi statue, di sarcofagi, mummie, oggetti funebri, ma c’è una dimensione meno conosciuta che ne fa la biblioteca più ricca dell’antico Egitto; dobbiamo considerare questi reperti riservati agli addetti ai lavori o c’è modo di renderli fruibili al visitatore comune?
È un grande sforzo su cui siamo impegnati su un doppio fronte. Abbiamo una piattaforma on-line: TPOP (Turin Papyrus Online Platform), che nel 2020 ha vinto il premio Europa Nostra per la ricerca. Si tratta di uno strumento di studio e divulgazione che consente di vedere i frammenti di 17mila papiri e la loro trascrizione e traduzione. È il primo passo per una diffusione sempre più estesa che consenta di accedere al patrimonio museale anche a chi non verrà mai fisicamente al museo di Torino. Il museo moderno è contemporaneamente fisico e digitale.
La seconda storia di valorizzazione delle nostre collezioni riguarda una sala dedicata alla storia del Museo Egizio, dove è esposto il grande papiro di Yuefankh, con un’infografica lunga 20 metri che illustra tutti gli studi, alcune tematiche rilevanti e le questioni linguistiche. Abbiamo poi la sala Deir el-Medina, dove ci sono documenti importanti come il papiro erotico-satirico con info grafica esplicativa. Possiamo inoltre citare il papiro dello sciopero, il giornale della metropoli con l’annuncio della morte di Ramses III, il papiro della congiura: la traduzione integrale sul retro permette a chiunque di leggere i documenti.
Per il bicentenario dello svelamento dei geroglifici, il Museo Egizio ha allestito una mostra che si chiama Il dono di Thot, mostra che verrà traslata in un’area del museo per diventare una sala permanente dedicata alla scrittura, con gli oggetti in dialogo con il digitale.
Come è cambiato l’allestimento del museo, in duecento anni?
All’inizio era un museo antiquario. Settant’anni dopo con Ernesto Schiapparelli c’è stato un salto di tipologia importante, ovvero si decise di iniziare ad effettuare scavi perché non contava solo il singolo oggetto, ma il suo contesto. Con Schiapparelli si è tornati quindi al concetto di ricerca. L’attività archeologica ha permesso l’acquisizione di circa trentacinquemila oggetti. Il museo pre-unitario divenne poi il primo museo archeologico dell’Italia unita. C’è un legame forte tra la storia del Paese e il Museo Egizio. Nel 1939 venne scorporata dalla collezione antichità quella esclusivamente legata all’antico Egitto. Nel dopoguerra, con le grandi direzioni, come Scamuzzi, e Curto, che era anche docente universitario, il museo divenne collettivo e inclusivo. Lo studio accademico diede la possibilità di consolidare l’attività e la preparazione delle professionalità, segnando un’apertura internazionale.
L’ultimo passaggio importante nel 2001: un decreto ministeriale permise di aprire alla gestione pubblica e privata e, dal 2004, il museo è una fondazione.
A questo proposito, lei è uno studioso, ma è anche un Direttore. Progetta dovendo poi rendere concrete e operative le idee, sostenendole economicamente. Come si gestisce una realtà così complessa e quale, secondo lei, è il supporto che la collettività tutta, in Italia e nel mondo, può dare?
Il legame collettività-museo è fortissimo e fondamentale. La partecipazione economica dei soci della fondazione è oggi di circa 800mila Euro a fronte di un fabbisogno di circa 15 milioni di euro, per promuovere la ricerca e pagare un personale molto qualificato e multidisciplinare di circa settanta persone. La differenza di introiti è coperta dall’affetto e dalla partecipazione della collettività in Italia e all’estero, dalla partecipazione alle iniziative, dai biglietti, dai grandi eventi, dalle consulenze internazionali che svolgiamo, dalle mostre itineranti, e questo sostiene anche la nostra ricerca. È un museo amato, e questa è la cosa più bella.
Crediti fotografici:
museoegizio.it