VOCI NUOVE - Dai margini, per raggiungere il centro
Agosto è, per me, il mese peggiore dell’anno. Più lungo di gennaio, più triste di novembre: così l’ho sempre vissuto. Tutto rimane in una pausa forzata e anch’io mi sento obbligata all’immobilità. Per questo, da quando ho memoria, ad agosto ho sempre letto e riletto un sacco di libri per distrarmi da un mondo che percepisco cristallizzato (ogni anno più afoso) e, di conseguenza, claustrofobico.
E mentre aspetto che tutto riprenda a muoversi - “Cos’altro posso fare?”, mi chiedo - ripercorro le mie ultime, intense letture e noto un filo conduttore, non cercato ma accolto con piacere: voci femminili che emergono dalle retrovie. Ben inteso, non sono una sostenitrice dei generi letterari e non credo che esista una letteratura per donne, ma credo fermamente, senza possibilità di ripensamenti che, nonostante la letteratura accademica ci abbia voluto educare a credere il contrario, le donne sappiano raccontarsi, con estrema autenticità, da sole.
Tutta la vita che resta, Roberta Recchia
Non mi capitava da mesi di rimanere così coinvolta in un romanzo; Tutta la vita che resta di Roberta Recchia è esattamente come me lo aveva descritto una cara amica: magnetico e totalizzante. La storia si svolge nell’arco di trent’anni, dai Cinquanta agli Ottanta, e racconta di una famiglia romana fortemente caratterizzata da un’energia matriarcale che, nel bene e nel male, guida la narrazione.
Marisa, un animo fiero e romantico, è la figura centrale della prima parte del romanzo. La sua gravidanza indesiderata e un matrimonio riparatore, che si rivelerà una salvezza non solo per la reputazione, sono il fulcro iniziale della vicenda. Marisa e Stelvio Ansaldo, un orfano e garzone, diventeranno una coppia vera: impareranno ad amarsi e avranno due figli, Ettore e Betta. Betta, bella e audace, introduce il lettore alla seconda parte del romanzo, quella che racconta la vita di dopo. Una mattina d’estate, la ragazza viene ritrovata senza vita su una spiaggia del litorale laziale. La tragedia spezza Marisa e Stelvio, i quali, consumati dal dolore, non riescono a condividerlo tra loro. C’è però un dettaglio che tutti, tranne la madre di Marisa, ignorano: la sera in cui Betta è stata stuprata e uccisa, con lei c’era la cugina Miriam, che ha subito solo metà della sorte di Betta. Miriam, incapace di affrontare la sua angoscia, si nasconde nel suo silenzio, distruggendosi, lasciata sola da una famiglia incapace di comprendere il suo tormento. L’aiuto arriverà dall’esterno, molto dall’esterno: Leo e Corallina, fratello e sorella che vivono ai margini di Roma, si affezionano a Miriam, che irrompe nelle loro vite come una mina vagante. Saranno loro ad aiutarla a ricomporre i frammenti della sua esistenza spezzata in quella notte inenarrabile.
Roberta Recchia ha un merito che spicca sopra tutti: racconta i margini, si insinua nelle trame di storie difficili da riunire, da ascoltare, da digerire. Questo è un romanzo corale che dà, finalmente, voce a chi sta ai margini del privilegio sociale e tenta, dal proprio spazio ristretto, di parlare a chi si trova più al centro. Penso non solo a Marisa e Miriam, ma anche a Corallina, un personaggio straordinario e inedito. Da tempo cerco storie che rappresentino l’emarginato senza condanna, senza paura e senza pietismo. Roberta Recchia porta sulla pagina la solitudine e la rabbia, e scrive di come queste emozioni possano essere silenziose, ma soprattutto di tutta la vita che rimane oltre queste battaglie intime e dolorose.
Pizza girl, Jean Kyoung Frazier
Trovato per caso in una libreria di Camogli, Pizza Girl è molto più di quanto lasci inizialmente intendere. Jane ha diciotto anni, è incinta e consegna pizze per racimolare qualche soldo. Vive con la madre e il fidanzato, conosciuto in un gruppo di supporto per ragazzi orfani: il padre di Jane, con cui lei non ha mai avuto un buon rapporto, è morto l’anno prima, mentre Billy ha perso entrambi i genitori in un incidente d’auto. Jane sembra vivere per inerzia, fino a quando non incontra Jenny, una madre alle prese con le difficoltà di crescere il figlio Adam e con un recente trasloco dovuto al lavoro del marito. L’incontro avviene perché Jenny ordina una pizza al salame e cetriolini dal locale in cui lavora Jane. Da quel momento, la ragazza sviluppa un’ossessione per la donna, che diventa il fulcro delle sue giornate, spingendola nel frattempo a riflettere su se stessa: l’immobilità in cui si trova non è dovuta all’apatia, ma alla paura di non essere all’altezza, di non riuscire a trovare il proprio posto nel mondo e, soprattutto, di scoprire in sé i tratti di suo padre alcolista. Sarà un episodio spiacevole a scuotere Jane, ma le pagine di Frazier si chiudono con una nota di speranza, incerta ma comunque presente.
Anche per me Pizza girl è stato paralizzante; ho apprezzato il sarcasmo con cui viene affrontata l’incertezza dei vent’anni: cosa significa crescere e siamo davvero tutti capaci di farlo? Nonostante il disordine e la sua autodistruzione nascosta, mi sono affezionata a Jane, ho tifato per la sua ripresa e, alla fine, ho tirato un sospiro di sollievo per le nuove consapevolezze che raggiunge. C’è un aspetto in particolare che mi ha commosso, in linea con la mia costante ricerca di rappresentazioni diverse: Jane rifiuta ostinatamente le aspettative che la madre, il fidanzato e la società hanno su di lei. Da anti-eroina, diventa a modo suo la voce di adolescenti, madri e donne che vengono spesso escluse - in letteratura e nella vita reale - dalla rappresentazione tradizionale a cui sono relegate. Ecco, quindi, un vero romanzo di liberazione.
Nina, Silvia Sangriso
Avevo notato Nina comparire su alcune riviste letteraria online, e mi fa piacere vedere come sia sbocciata su carta stampata. Silvia Sangriso racconta la storia di Nina, un’architetta trentenne alla prese con la propria vita e il proprio corpo, con le difficoltà che derivano da entrambi: il peso di essere una parte fondamentale della vita altrui e, allo stesso tempo, il peso del suo stesso corpo. Nina è una donna che cerca se stessa nell’affetto degli altri, compresi gli uomini, finché non realizza di non averne bisogno, che può amarsi da sola e bene. Solo allora, nasce davvero.
Questa non è una storia lineare ma frammetti di una vita, tenuti insieme da un nome (che dà il titolo al libro), che mi hanno fatta riflettere su quanto spesso ci sentiamo noi stessi come frammenti, incapaci di definirci pienamente e di sentirci autentici se non attraverso lo sguardo di chi ci ama.
Un altro aspetto che ho trovato convincente, nonostante la voce frammentaria della protagonista, è il tema degli amori sfiorati, delle storie mai compiute, che tuttavia occupano uno spazio significativo. Parlano di noi: attraverso quanti occhi ci vediamo? Attraverso quali, davvero, riconosciamo?
Ancora una volta emerge una vita che si rifugia ai margini, spesso fallimentare e incerta, incapace di tenersi insieme, ma che impara, con dolore, la strada per volersi bene.
Involontariamente – me ne rendo conto ora che sto per chiudere la pagina – ho scritto di tre esordi. Questo mi fa capire, contrariamente a quanto pensavo durante gli studi di Letteratura Contemporanea all’università, che esiste ancora, e sempre esisterà, qualche voce pronta a scuotere il futuro (o forse il presente?) con una forza centripeta che parte dai margini, sempre dai margini, per arrivare al centro.