PUPI AVATI - Il cuore altrove
Sono davvero pochi, oggi, i personaggi che possono rappresentare a pieno titolo la storia del cinema: uno di questi è Pupi Avati, protagonista di una delle carriere più prolifiche della cinematografia, non solo italiana ma mondiale.
Giuseppe “Pupi” Avati è nato a Bologna il 3 novembre 1938. Nella sua carriera ha realizzato più di cinquanta film ed una lunghissima serie di sceneggiature, produzioni televisive e romanzi. Tra questi, non possiamo non ricordare la collaborazione alla sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma (l'ultima fatica di Pier Paolo Pasolini), film come La casa dalle finestre che ridono (1976), Il cuore altrove (2003) o Un ragazzo d’oro (2014), oppure romanzi quali Il signor diavolo, La grande invenzione e Il ragazzo in soffitta.
La lista dei suoi capolavori è infinita eppure quello che più colpisce, parlandogli, è la sua disponibilità, la semplicità ed il candore con cui racconta aneddoti che per lui sono pura quotidianità, mentre per noi rappresentano perle preziose di un patrimonio culturale costruito anche grazie al suo fondamentale contributo.
Maestro, recentemente ha celebrato i 50 anni di carriera. Dopo una vita dedicata al cinema e alla televisione, qual è il suo ricordo più bello?
Il ricordo più entusiasmante è legato al primo giorno del mio primo film: quel 18 settembre 1968 in cui il sogno che avevo cullato insieme ai miei amici di Bologna, dopo quattro anni di tentativi disperati, divenne finalmente realtà. Quella mattina l’inizio delle riprese avvenne tra una massa di curiosi, perché per Bologna si trattava di un evento: un film che nasceva localmente, attraverso un finanziatore locale, e con una troupe – tecnici, attori ed il sottoscritto come regista – tutti bolognesi.
Trovarsi a pronunciare “motore, ciak, azione” per la prima volta crea una sensazione che in seguito ci si può solo illudere di rivivere. L’entusiasmo per quel primo lavoro era così forte che nelle notti precedenti, insieme agli altri, avevo già preparato il discorso per l’Oscar: la nostra ingenuità, in quel particolare contesto storico in cui tutto sembrava possibile, oggi fa tenerezza.
Il risveglio, purtroppo, fu doloroso: il film fu un disastro. Ne feci un secondo e anche quello andò malissimo, tanto che dovetti fuggire da Bologna perché mi prendevano tutti in giro e rifugiarmi a Roma, dove rimasi senza lavoro per quattro anni.
Insomma, i miei inizi furono molto duri ma niente mi può togliere il ricordo bellissimo di quel primo giorno in cui, insieme ai miei amici, intrapresi questa meravigliosa avventura che è il Cinema.
C’è qualcosa che non rifarebbe?
In realtà, se lo chiedessi a qualcuno che mi vuole bene e che mi costringesse a dire veramente come sono andate le cose, dovrei ammettere che ci sono dei film che hanno prodotto più dolore che soddisfazione e ce ne sono anche alcuni dei quali probabilmente non dovrei andare orgoglioso. Dopo cinquanta film, si può immaginare quante volte ho commesso errori e quante volte mi sono dovuto correggere.
Tuttavia, penso che anche gli sbagli – forse soprattutto quelli – nella vita insegnino delle cose. Nessuna esperienza è inutile e se oggi posso dire di avere un controllo pressoché totale del mezzo cinematografico, e di essere all’altezza di poter gestire qualunque situazione, è anche grazie a quelle esperienze.
Questo mi permette di affrontare ogni nuovo lavoro come un’opera prima e con l’atteggiamento di chi pensa di non aver ancora fatto il film della propria vita, quello assolutamente perfetto al quale non apporre nessun tipo di modifica o correzione.
Detto sinceramente, senza presunzione, credo di non aver mai davvero messo a frutto il talento che mi è stato dato. Ogni volta che realizzo un film parto da un’idea iniziale ma il risultato finale non la rispecchia mai completamente: le assomiglia soltanto.
Bergman una volta disse che solo dopo sette film riuscì a farne uno che assomigliava a quello che aveva pensato. Io ancora non sono riuscito a farlo.
Quindi, c’è sempre entusiasmo nell’affrontare nuove sfide?
Credo che si possa parlare più di insoddisfazione: un elemento essenziale per la creatività, che ci fa sentire vivi. Non bisogna mai sentirsi appagati. Per quanto un nostro lavoro ci possa piacere, dobbiamo sempre pensare che si poteva fare meglio. Solo pensando che il meglio deve ancora venire troviamo la spinta per progredire.
Tra le sue collaborazioni professionali più significative c’è anche quella con Pasolini. Che cosa le ha lasciato quella esperienza?
La collaborazione con Pasolini mi ha insegnato come trasmettere un contenuto, il senso di una cosa: l’unico strumento è la semplicità e Pasolini era una persona che si esprimeva in modo nitido, chiaro e semplice. Mi sono trovato, in altre occasioni, a dover scrivere sceneggiature per registi molto meno ispirati e, in genere, quando tentavano di spiegarmi cosa volevano era difficile capirli. Di conseguenza, le cose che scrivevo per loro non andavano mai bene, perché in realtà fin dall’inizio vi era confusione, incertezza. Loro stessi non sapevano cosa chiedermi. Con Pasolini, invece, così come con Sergio Citti – che lavorò con noi a quel progetto – tutto era chiaro. Quindi, per quanto doloroso fosse scrivere quel film – e posso davvero affermare che Salò è stato un film tremendo da scrivere, per il quale mi sono dovuto violentare – difficilmente le pagine che scrivevo di volta in volta non andavano bene, perché Pasolini nel far capire cosa voleva era elementare, essenziale, di una chiarezza assoluta. Sapeva essere diretto e comunicare in maniera efficace: le persone ispirate hanno questa qualità.
Dal punto di vista umano, mi ha lasciato tantissimo. Ho conosciuto un grande poeta, un uomo di una dolcezza infinita che poi si trasformava, aveva una sua parte notturna che normalmente non emergeva.
Mentre scrivevamo le cose più tremende, nell’appartamento dell’Eur dove viveva con sua madre e suo nipote, la madre si affacciava per chiedere se le melanzane le preferivamo fritte o con il pomodoro. Ecco, mi è rimasto il ricordo bellissimo di questa quotidianità semplice – più da impiegato di banca che da grande star – in cui, mentre parlavamo di argomenti tremendi, la vita fluiva nella sua più assoluta normalità.
Credo, però, che un episodio più di altri possa far capire quanto fosse speciale il mio rapporto con Pasolini: fu quando mi invitò alla prima proiezione de Il fiore delle mille e una notte, un evento privatissimo in cui eravamo in dieci. Mi fece sedere in prima fila, a fianco a sua madre, la quale mi prese la mano – così come avrebbe fatto mia madre con uno dei miei amici – e mi disse “speriamo che sia bello”. Mi tenne la mano per tutto il film. Alla fine mi baciò ed era contentissima: piangeva.
Cosa può dirci, invece, della sua amicizia con Fellini?
Con Fellini ho vissuto il tramonto di un uomo che aveva dato tanto, ma che aveva anche avuto tanto. Era il periodo in cui i dirigenti Rai gli facevano dire dalle segretarie: “richiamiamo noi”, ma non richiamavano; quando, passeggiando per le vie del centro, gli stranieri lo fermavano eccitati, menzionando La dolce vita, 8½, Amarcord, ma nessuno citava i suoi ultimi lavori.
Fellini, al momento della sua morte, già non c’era più da tempo: artisticamente, agli occhi del mondo, rappresentava il passato e questa era una cosa che lo infastidiva molto.
Una cosa bella di lui era il suo senso dell’umorismo: Fellini era un uomo molto spiritoso e le persone intelligenti in genere lo sono sempre. Difficilmente si trova un uomo intelligente che non sia autoironico, o che non sia in grado di cogliere l’aspetto un po’ ridicolo anche della tragedia. In Fellini, questo aspetto era formidabile. Era anche un po’ cattivo, però mi faceva ridere in un modo in cui nessun comico mi ha mai fatto ridere.
In cinquant’anni il mondo del cinema si è evoluto moltissimo. Cosa cerca, oggi, lo spettatore? Cosa deve trasmettere una produzione cinematografica o televisiva?
Per dieci volte, nel 2018, non c’era un film italiano tra i primi dieci incassi del weekend: erano tutti americani. Questo ci fa capire qual è la situazione del cinema italiano, oggi. Nel ’68, quando ho iniziato a fare cinema, la stessa classifica sarebbe stata occupata almeno per metà da produzioni italiane.
Il cinema italiano sta chiaramente vivendo una crisi senza precedenti, non solo sul piano degli incassi ma su quello della qualità, e la grande stagione del cinema italiano è ormai alle nostre spalle da decenni. Oggi, in Italia, si fa quasi esclusivamente commedia e si usano sempre gli stessi attori. Per usare un termine calcistico, parlerei di “panchina corta” ed i risultati sono deludenti. La cinematografia nordamericana, invece, ha continuato ad evolversi ed oggi detiene quasi interamente il mercato, non solo dei film ma anche delle serie televisive. Quindi, illudersi di poter riaprire le sale cinematografiche, oggi, è veramente ingenuo.
Nel suo percorso professionale ha saputo rinnovarsi continuamente, occupando ruoli anche molto diversi tra loro, sia in termini di tempistica che di linguaggio: ad esempio da regista, sceneggiatore e produttore cinematografico è approdato a ruoli di docente, direttore artistico e scrittore. Pensa che questa voglia di trasformazione possa in qualche modo essere dettata dall’esigenza di usare mezzi, come la scrittura, più riflessivi rispetto all’immediatezza del cinema o della televisione?
La scrittura è fondamentale. Per qualunque strumento utilizziamo, che sia il cinema o la televisione, la scrittura è la base. Ma possiamo distinguere diversi tipi di scrittura. Vi è, innanzitutto, la scrittura finalizzata a se stessa, che è anche la forma più libera di scrivere, quella che non viene condizionata in alcuno modo dal denaro e che ci permette di scrivere quello che vogliamo, quando vogliamo e nella forma che vogliamo: in questo caso, se decidiamo di scrivere “due milioni di cavalieri scendono dalla collina”, possiamo farlo senza che l’editore ci dica “questa scena costa troppo”. Quando, invece, si scrive per il cinema, bisogna educarsi a scrivere in base alla dimensione del budget: la nostra creatività, la nostra fantasia, sono grandi quanto il nostro salvadanaio; inoltre, in questo caso abbiamo anche delle costrizioni di tempo, perché diventa necessario scrivere entro un certo periodo. Insomma, ci sono condizionamenti infiniti da parte del linguaggio cinematografico rispetto a quello letterario, che invece è di gran lunga più libero. Poi, ovviamente, bisogna trovare un editore, un distributore, dei lettori, ma gli stessi problemi si incontrano anche nel cinema, però io trovo che l’esperienza letteraria sia assolutamente più liberatoria e che possa assomigliare di più a quello che siamo e che vogliamo esprimere.
La mia esperienza mi ha, però, insegnato che vi è una grande differenza anche tra cinema e televisione: il cinema viene distribuito male e poco ed il numero delle sale si sta riducendo in modo esponenziale. Tuttavia, il prodotto cinematografico ha una durata nel tempo che la serie televisiva o il tv movie non hanno: la televisione, stasera, può essere al centro dell’attenzione del Paese ma già da domani non esiste più. Il cinema, inoltre, permette di essere un po’ più liberi e di affrontare tematiche che in televisione non vengono permesse.
Recentemente ha espresso perplessità sulla possibile realizzazione di un suo progetto che tratta della vita di Dante Alighieri raccontata dal Boccaccio e che è fermo da tempo. Ci può dire di più in merito?
Sì, in effetti sono in possesso fin dal 2001 di una lettera della RAI, la quale si impegna con me a realizzare la vita di Dante Alighieri raccontata dal Boccaccio. Una chiave di volta e un approccio che mi sembrano geniali, perché Boccaccio fu il primo biografo di Dante (nel Trattatello in laude di Dante, ndr): colui che, 29 anni dopo la morte del poeta, si recò da Firenze a Ravenna per risarcire la figlia (Suor Beatrice) con dieci fiorini d’oro donati da una comunità di fiorentini. Lì incontrò molte persone che avevano conosciuto Dante ed iniziò la sua ricerca per scoprire che tipo di uomo era stato e per ricostruirne la vicenda umana.
Quella di Dante Alighieri è una storia bellissima, ma anche quella della ricerca a mio avviso lo è, perché tutto quello che sappiamo della vita di Dante lo dobbiamo al lavoro di Boccaccio. In questo progetto, tra l’altro, sono appoggiato dall’Accademia della Crusca e da tutti i più importanti dantisti italiani e ci piacerebbe vederlo realizzato prima dell’anniversario della morte di Dante, che ricorrerà nel 2021. Tuttavia, i lavori non sono ancora partiti e confesso di essere molto preoccupato. Oggi in televisione possiamo vedere biografie di cantanti, stilisti, sportivi ma ancora non si è raccontata la vita di Dante. Il ruolo della televisione pubblica dovrebbe essere quello di acculturare il Paese e non solo quello di fare numeri di ascolto ma purtroppo oggi non è più così: si è perso quell’intento pedagogico che, invece, era molto forte quando ero ragazzo.
In questo periodo è uscito il film Il Signor Diavolo, tratto dal suo omonimo romanzo. Di cosa parla?
Si tratta di un film gotico, che include un aspetto esoterico, parapsicologico, ed è ambientato in luoghi dove ho già realizzato diversi lavori, assolutamente perfetti per questo genere. Il film dovrebbe uscire in primavera: è una pellicola di genere, di quelle che raramente si fanno ormai in Italia, e speriamo che possa essere apprezzata da un pubblico giovane. Ancora oggi, durante le mie conferenze stampa, incontro ragazzini che hanno il dvd de La casa dalle finestre che ridono e questo mi conferma che certi film sopravvivono al tempo.
Bologna, la sua città natale, appare spesso nei suoi lavori, così come la Pianura Padana. Che cosa l’affascina di più di quei luoghi?
In quei luoghi c’è un odore dove la favola contadina trova il suo contesto più efficace. Sono spazi misteriosi, spesso nebbiosi, paludosi, con case abbandonate, dove si possono immaginare le storie più terribili. Le favole che ci raccontavano durante lo sfollamento erano quasi sempre ambientate lì e sicuramente hanno influenzato il mio immaginario.
Per concludere, una parola che possa descrivere la sua incredibile carriera?
Gliene dico tre: Il cuore altrove.
In copertina: Pupi Avati (immagine IMDb)