PAOLO SORRENTINO - È stata la mano di Dio
Paolo Sorrentino ripercorre la sua gioventù in È stata la mano di Dio.
Nella sua ormai lunga e prestigiosa carriera, Sorrentino aveva sempre evitato l’autobiografismo. Napoli compariva nel suo primo film, L’uomo in più, uscito esattamente vent’anni fa, e c’erano pure il calcio e il San Paolo, e Toni Servillo faceva la sua prima apparizione, ma non si parlava di vicende personali. Dopodiché, il regista aveva lasciato la città natale per adottare Roma, le cui forme e colori si stagliano nei suoi film migliori: Il divo (2008) e La grande bellezza (2013). Il secondo di questi due è pure il film in cui il gioco di rimandi al cinema di Federico Fellini è più scoperto. Scrivendone, a suo tempo, dissi che al di là dei tanti paralleli, una differenza fondamentale tra i due registi risiedeva nel fatto che mentre Fellini aveva scelto la formula autobiografica – dai Vitelloni (1953) ad Amarcord (1973) – Sorrentino la rifuggiva sistematicamente. Ora non più.
Con È stata la mano di Dio, Sorrentino ha fatto i conti con la sua gioventù, con la sua città, con la sua vocazione artistica e con il trauma della perdita di entrambi i genitori. Ne è uscito un film intimista, pur nell’occasionale spettacolarità di paesaggi e personaggi eccentrici a cui Sorrentino ci ha abituato, e pur all’interno del grande affresco cinematografico dedicato alla città di Napoli.
Fabietto (interpretato da un bravissimo Filippo Scotti) è il centro di gravità del film; è punto di osservazione e materia di studio allo stesso tempo. Attraverso i suoi occhi vediamo la bizzarra e divertente brigata dei parenti e degli amici guidata dalla figura volitiva dei due genitori (Teresa Saponangelo e Toni Servillo, ancor più bravi). E come in un degno romanzo di formazione seguiamo le ansie, gli entusiasmi e le sofferenze del giovane protagonista, e in questo caso il suo amore per il cinema e il distacco finale dalla città natale (immortalato dal treno in partenza e dalla figura solitaria di un bambino che saluta dalla banchina, ultimo omaggio al maestro).
Si potrà criticare È stata la mano di Dio per il grado minore di spettacolarità con cui Sorrentino normalmente ci incanta. Oppure per gli scarti di genere narrativo, lì dove la narrazione realistica cede il passo a un surrealismo buñueliano, come quando i membri della famiglia prendono selvaggiamente a calci la parente più odiosa.
Tutto questo lo si intuisce già nella scena che apre il film: un lungo piano sequenza girato in elicottero (vedasi l’apertura de La dolce vita per l’ennesimo parallelo non casuale) dove, dall’intensità dell’azzurro del mare filmato in verticale, si passa a una lunga panoramica del golfo di Napoli, che si stinge progressivamente e finisce con uno zoom su un’automobile d’inizio secolo bizzarramente mischiata al traffico cittadino, che scopriamo appartenere a un misterioso San Gennaro in limousine. Basterà tornare con la mente al raffinatissimo piano sequenza che apre La grande bellezza per capire il differente passo e calibro tra le due scene.
Tuttavia, a fare da abbondante contrappeso a queste esitazioni formali sono la carica emotiva – genuina, intensa – con cui Sorrentino rappresenta i desideri e il dolore di Fabietto, così come la bellezza e lo squallore di Napoli. E il filo che lega i due, in quei torbidi anni Ottanta, è l’arrivo di un calciatore argentino di nome Diego Armando Maradona.
Se la cultura barocca si distingue per gli eccessi di una disperata sensualità prigioniera dell’armonia dell’arte classica, per la sua fusione di sacro e profano, e se questa cultura ha trovato in Napoli la sua città ideale, il culto di Maradona ne è il corrispettivo contemporaneo. La “mano di Dio”, espressione coniata da Maradona stesso - quel goal canagliesco rubato all’Inghilterra nei quarti del mondiale 1986 - diventa simbolo dell’agonia e dell’estasi di un’intera città, di un popolo.
Il profano attraverso il quale Fabietto matura come giovane uomo non è una discesa agli inferi, anzi: dal calcio passa all’amicizia con un contrabbandiere violento (ma sognatore), all’amore sensuale verso una bella zia ammattita dalla mancata maternità, al primo sesso con l’anziana vicina di casa, sino all’incontro con la magia del cinema e la visita a Napoli da parte di, guarda caso, Federico Fellini. Con quella sua presunta frase, “la realtà non mi piace più; la realtà è scadente”, che ritorna nel film come un mantra, l’invisibile Fellini – di cui udiamo solo la voce, in quel suo tipico accento romagnolo – trasmette l’invito chiave a uscire dalla realtà. Da qui l’arte, il cinema.
L’arte come realtà rimodellata, esorcizzandone le imperfezioni, o almeno senza quel dolore profondo che imprigiona Fabietto, è la chiave di volta dell’intero film. Maradona è stato l’artista – uno dei tanti, ma forse il più amato nel ventesimo secolo – che ha fatto sognare un’altra Napoli. Tra questi grandi artisti troviamo Pino Daniele e infatti la sua Napule è, del 1977, fa da sipario musicale al distacco finale di Fabietto. Il cinema, invece, è l’arte che ha permesso a Sorrentino di esprimere la sua creatività e diventare, anche lui, un grande artista napoletano. Da qui il film della consapevolezza, della maturità: È stata la mano di Dio.
In copertina: Filippo Scotti (Fabietto)
immagini: Netflix Media Centre