MARINO BARTOLETTI - A cena con gli dei

MARINO BARTOLETTI - A cena con gli dei

Marino Bartoletti è uno dei più amati giornalisti italiani. Conduttore, e spesso ideatore, di programmi televisivi storici quali Il processo del lunedì, La domenica sportiva, Pressing e Quelli che il calcio, è stato direttore del Guerin Sportivo e dei giornali sportivi di Mediaset e RAI, nonché fondatore di Calcio 2000. Come giornalista sportivo ha inoltre seguito dieci olimpiadi, dieci mondiali di calcio e tante edizioni del Giro d’Italia, della Champions League e centinaia di altri eventi sportivi.

In qualità di esperto e storico della musica, invece, è stato più volte in giuria al Festival di Sanremo, selezionando alcuni brani per il concorso. Questo talento, unito alla bravura di narratore, lo rende ospite assiduo di alcuni dei più importanti talk show italiani.

È stato direttore della Enciclopedia Treccani Sport e ha guidato la squadra che ha fondato Radio 24. È stato, inoltre, Direttore Editoriale di RCS Multimedia.

Recentemente ha scritto e recitato in due spettacoli teatrali e pubblicato diversi libri.

Parlare con lui del suo ultimo romanzo Il ritorno degli dei - che si è appena aggiudicato il Premio Bancarella 2021 - ma anche di calcio, musica, teatro e tanto altro, è stata un’esperienza davvero piacevole.

Il ritorno degli dei, pubblicato nel 2021, è arrivato dopo il grande successo de La cena degli dei. Nel primo libro, diversi personaggi si ritrovano a casa del Grande Vecchio: un luogo dove fare incontri sbalorditivi e rivivere emozioni dimenticate. Chi sono gli invitati a cena e cosa li accomuna?

Tutti i personaggi sono in qualche modo entrati in relazione, nel corso della loro vita, con il Grande Vecchio, cioè con colui che fa gli inviti (Enzo Ferrari). A cominciare da Luciano Pavarotti, che è stato suo amico, cliente, confidente, concittadino. Ci sono stati, poi, personaggi che ha solo sfiorato come Ayrton Senna, il pilota che Ferrari avrebbe voluto avere e non ha mai avuto (così come Senna non realizzò mai il suo sogno di guidare una Ferrari) perché quando il Grande Vecchio lo invitò, Senna non riuscì a svincolarsi dalla sua scuderia e quando vi riuscì, il Grande Vecchio non c’era più. Purtroppo, in seguito, morì anche Senna.
Tra gli altri personaggi troviamo: Tazio Nuvolari, che è stato il pilota della vita di Enzo Ferrari, con cui è cresciuto assieme, in simbiosi; Lucio Dalla, che nel famoso album Automobili, attraverso Il motore del 2000, Nuvolari e tante altre canzoni bellissime, ha raccontato le automobili esattamente come le aveva immaginate e sognate il Grande Vecchio; e poi ci sono due ragazzi che lui ha solo incrociato, come Marco Pantani – il quale è diventato “Pantani” dieci anni dopo la morte di Ferrari – e  Marco Simoncelli, che è salito alla ribalta ancora più in là: entrambi, però, hanno interpretato la vita, il coraggio, le imprese, esattamente come avrebbe voluto lui.

Questi sono alcuni degli invitati. Oltre agli dei ci sono, ovviamente, anche delle dee come Maria Callas che, in quanto grande amante dell’opera lirica, Ferrari ha voluto con sé, considerandola – non soltanto lui – la più grande cantante del secolo. Insomma, un bel cast, come si direbbe oggi: assolutamente complementare, dove il raduno è tutto di fantasia, in un luogo onirico come il Paradiso, nel quale però poi alla fine si raccontano rigorosamente, tra di loro, storie vere.

È bello vedere, ad esempio, Nuvolari, che è stato il più grande pilota della prima parte del secolo, dialogare con Senna, che è stato il più grande della seconda parte del secolo. Guidavano auto diverse ma facevano mestieri uguali e mi è piaciuto immaginare un loro possibile confronto.

Il secondo libro si concentra, invece, su Paolo Rossi e Diego Armando Maradona: due campioni molto diversi, che ha avuto modo di conoscere personalmente. Che ricordo ha di loro?

Rossi e Maradona sono entrati in questo libro perché qualcuno mi aveva affettuosamente rimproverato per il fatto che nel primo non ci fossero calciatori, ed era vero, anche se la cosa era casuale e quasi nessuno ne aveva sentito la mancanza. La Cena degli Dei era uscito il 2 dicembre 2020, cioè sette giorni dopo che se n’era andato Diego e sette giorni prima che se ne andasse Pablito, per cui non potevo non cogliere l’occasione per ricordare quelli che – come ho scritto nella dedica – sono stati innanzitutto due miei grandi amici, prima che campioni. Tanto è vero che assurgono anche all’onore della copertina e raccontano le storie più importanti di tutto il libro. Ripeto: ho parlato di due amici, due grandi uomini che non si sono frequentati tanto in vita ma che ho voluto immaginare in quel Luogo, con la L maiuscola, mentre mettevano a confronto le rispettive umanità, certamente declinate in modo diverso.

Pur essendo uno dei più grandi giornalisti italiani ha scelto, per entrambi i romanzi, uno stile narrativo fiabesco. È, forse, un modo per rendere omaggio a tutti i personaggi speciali che vi appaiono?

Sarà che fin da bambino mi sono sempre piaciute molto le favole. Sarà che comunque mi piace immaginare che questi nostri eroi, come tutte le persone care, si possano ritrovare e incontrare da qualche parte: era quasi d’obbligo raccontarli in questo modo. È chiaro che prevale la fantasia ma, come ho già detto, si tratta di una fantasia saldamente ancorata alla realtà, perché li rappresento com’erano prima ma anche come mi piace pensare che siano rimasti dopo. Lucio Dalla, in Paradiso, porta la sua genialità, la sua follia, la sua goliardia; Pantani la sua malinconia. Sono sempre loro stessi ma uniti, forse – e torno alla domanda iniziale – anche da un’altra caratteristica: la sensazione che porta il Grande Vecchio, come tanti di noi, a ritenere che tutti se ne siano andati con il credito di una carezza, che la vita non ha loro concesso. La vita ha dato loro tanto ma poi, se guardiamo alla tristezza con cui se n’è andato Pantani, all’improvvisa morte di Lucio Dalla, alle circostanze drammatiche in cui è morta Lady Diana, alla solitudine con cui sono morti Maradona o Mia Martini, ci rendiamo conto che li unisce una carezza non ricevuta: una mancanza alla quale il Grande Vecchio vuole, in qualche modo, porre rimedio.

Facciamo un salto indietro nel tempo. Dopo la laurea in giurisprudenza si è dedicato alla costruzione di una brillante carriera giornalistica, tra stampa, radio e televisione. Tra le innumerevoli attività, quale le ha dato maggiore soddisfazione?

Sarebbe ingrato fare classifiche, anche perché sono sempre stato me stesso in tutte le cose che ho fatto. Non sarei stato un discreto conduttore televisivo se non avessi avuto un background nella carta stampata. C’è sempre stato un ‘Marino’ autentico, con pregi e difetti, in tutte le cose che ho fatto. Posso dire che il mio figlio più bello a livello televisivo è sicuramente Quelli che il calcio, mentre a livello di carta stampata è la direzione del Guerin Sportivo, perché diventando direttore di quel giornale coronai un sogno. E poi c’è questa esperienza di scrittore – anche se mi fa un po’ sorridere l’idea che qualcuno mi chiami “scrittore” – e ci sono i miei libri a darmi soddisfazioni ed emozioni che sinceramente prima, pure avendone vissute molte, non avevo mai provato.

Oltre alla conduzione di programmi importanti quali Pressing o La Domenica Sportiva, come ci accennava ha ideato per la Rai e condotto dal 1993 al 2001, insieme a Fabio Fazio, Quelli che il calcio: un programma che ha segnato un’epoca. Come nacque l’idea?

Sì, credo davvero che Quelli che il calcio abbia segnato un’epoca, perché è stato una svolta nel racconto sportivo in televisione. L’idea è nata perché, come ho raccontato spesso, da piccolo non “ascoltavo” la radio ma la “guardavo”, e  mi piaceva immaginare – diventato adulto – un programma televisivo che raccontasse le cose pur senza farle vedere, perché a Quelli che il calcio le partite non si vedevano: si vedeva tutto il contorno, si vivevano le emozioni, i brividi, le arrabbiature; si vedevano gli occhi di chi guardava quelle partite, e lì è tornato a prevalere il bambino ‘Marino’, che pensava che le emozioni si potessero manifestare anche senza mostrare direttamente le cose a cui facevano riferimento.

Parliamo di otto anni della mia vita a cui sono profondamente legato perché, oltre all’orgoglio di aver concepito e vissuto il programma, del successo che ha avuto, ci divertivamo veramente a farlo e la gente che lo seguiva percepiva questo divertimento e si divertiva a sua volta. Non era immaginabile, fino a quel 1993 in cui nacque Quelli che il calcio che, sulla stessa poltrona, si potessero sedere un appassionato di calcio che voleva vedere in qualche modo appagata la sua curiosità – e lì gliela appagavano i radiocronisti di Tutto il calcio minuto per minuto – e ad esempio sua moglie, o qualsiasi altra persona che non avrebbe mai pensato di guardare una trasmissione di apparente matrice calcistica: abbiamo creato una fusione assolutamente non prevedibile.

Tra tutti i personaggi da lei lanciati in quel contesto, ce n’è uno che le è rimasto nel cuore?

Sarebbe ingiusto parlare di un personaggio piuttosto che di un altro. Quando buttai giù il concept della trasmissione preparai degli identikit. Ad esempio avevo scritto che sarebbe stato bello avere un personaggio possibilmente extracomunitario, pittoresco, chiacchierone, innamorato di una squadra, ma non sapevo che esistesse Idris. E quindi l’idea che Idris sia esistito veramente per me è motivo d’orgoglio. Non possiamo, poi, dimenticare il leggendario Atletico Van Goof o la simpatia del mio amico Van Wood, così come non possiamo dimenticare forse il miglior Teo Teocoli della storia della televisione, nel senso che ha fatto certamente altre cose belle ma impersonando l’Avvocato Prisco, o Galliani, è entrato nella storia della televisione. È stato molto bello vedere come, in quella trasmissione, tutti davano il meglio di sé con semplicità e naturalezza. E, ovviamente, non posso non menzionare il mio compagno di viaggio, Fabio Fazio, senza il quale Quelli che il calcio non avrebbe ottenuto il successo che ha avuto.

La trasmissione aveva il grande merito di parlare di calcio, e non solo, con satira e ironia. Quanto manca, nel panorama televisivo attuale, quella leggerezza che accompagnava le nostre domeniche pomeriggio?

Tanto! Quella è stata una congiuntura astrale fortunata fra persone che sapevano come si poteva far divertire la gente, divertendosi a propria volta. Oggi è tutto così serio, tutto così drammatico. È tutto così disallineato da quella voglia, appunto, di leggerezza e di sdrammatizzazione che dovrebbe essere, invece, la stella polare di chi fa televisione. Si può scherzare sulle cose ma, per scherzarci su, bisogna amarle e conoscerle. L’unico rischio che si può correre è che si offre una rappresentazione talmente meravigliosa dello sport che poi, il confronto con la realtà, può riservare delle delusioni.

Un’altra sua grande passione è la musica. Ha, infatti, collaborato con il Festival di Sanremo in molte occasioni, facendo anche parte della giuria di esperti. Qual è il suo genere preferito?

Non c’è un genere in particolare. Le mie figlie sono allibite all’idea che mi piacciano i Måneskin, ma è giusto così. Perché negarsi la gioia di assecondare la contemporaneità? Oppure, perché negarsi la gioia di dire “preferisco questo a quell’altro”. Io ascolto i Måneskin così come ascolto Gianni Morandi, oppure Massimo Ranieri così come ascolto Elodie. Poi, andando indietro nel tempo, penso al quartetto del Rigoletto di Giuseppe Verdi, a Modugno o a Carosone, quindi è difficile scegliere un genere. Certo, sono molto legato ai miei anni Sessanta; però, anche lì, qual è il genere? Quello di Celentano o quello di Pino Donaggio, che scriveva Io che non vivo senza te. Il Gaber prima maniera, oppure il Gaber seconda maniera? A me piace apprezzare, a prescindere dagli schemi.

E quindi non si può parlare neanche di un artista preferito?

Ci sono certamente degli artisti del cuore. Se debbo pensare a quelli contemporanei che mi hanno dato le emozioni più forti dico Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini e Roberto Vecchioni, pentendomi di non aver messo nei primi tre Lucio Dalla, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Ma potremmo andare avanti all’infinito!

Dopo una lunga riluttanza, qualche anno fa ha deciso di aprire un profilo su Facebook, evento che ha poi portato alla pubblicazione della serie di libri Bar Toletti.  Qual è il suo rapporto con le reti sociali?

L’ho fatto perché potevo tranquillamente sedermi sugli allori, ammesso che fossero allori, però era un delitto, anche per l’indole curiosa che mi ha sempre supportato in questo mestiere. Era un delitto non allinearsi con la contemporaneità, per poter dialogare con essa. Su Facebook faccio quello che so fare: racconto storie, favole, aneddoti, riflessioni, esperienze. Non mi importa molto delle lunghezze. Faccio quello che ho a cuore. Ogni tanto ci si scontra con villania, ignoranza, arroganza, forse infelicità, e lì dovrei essere più easy, anche se per antica predisposizione al dialogo cerco sempre di dialogare, avendo ogni tanto anche qualche piccola delusione. Però tra centinaia, migliaia di followers, è fisiologico che ci sia qualche persona non in linea con l’educazione e la predisposizione al confronto che cerco di proporre.

Secondo lei, quanto sono cambiate le dinamiche di comunicazione, con l’avvento del digitale? Quali qualità deve avere un aspirante giornalista oggi, rispetto a cinquant’anni fa, e quali sono, invece, gli elementi imprescindibili per avviarsi a questa professione?

Le qualità fondamentali debbono essere sempre le stesse. Ci vuole una preparazione di base, una buona curiosità, una conoscenza della lingua, cosa che ultimamente viene un pochino trascurata. Ci vuole, ancor di più, una serietà a cominciare dalla verifica delle fonti. Questa è sempre stata una regola del giornalismo ma adesso, soprattutto quest’ultimo aspetto, viene completamente scavalcato: ci si sente giornalisti troppo presto. 

A cosa sta lavorando ora? Ci può anticipare qualcosa?

A tanti progetti: da una riduzione teatrale de La cena degli dei a uno spettacolo che mi è stato chiesto per i quarant’anni dal mondiale 1982, alla “Cena 3”, cioè al terzo libro degli dei, che praticamente è già venduto in decine e decine di migliaia di copie e sul quale sto facendo qualche riflessione, cambiando idea ogni giorno, a dire la verità. Ad agosto farò la sintesi di tutto e vediamo cosa ne esce. E poi, comunque, ho uno spettacolo che sto portando in giro e la presentazione del libro, che è molto impegnativa. Sono formalmente in pensione ma non ho mai lavorato tanto in vita mia!

C’è qualcosa che non le ho chiesto e di cui le piacerebbe parlare?

No. Ho 73 anni e ho una vita molto intensa alle spalle. Negli ultimi anni ho vissuto anche qualche esperienza drammatica, importante. Cerco semplicemente di guardare al futuro: per me, per i miei nipoti, per la gioia di vivere. Lo faccio con convinzione. L’ho scritto anche nella prefazione del primo libro, La cena degli dei, che ho dedicato a Ferrari perché a settant’anni guardava alla vita e progettava il futuro. Ecco, credo di averlo scritto per me stesso, in fondo…

In copertina: Marino Bartoletti
immagine: galluccieditore.com

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