VICTOIRE GOULOUBI - La cucina come educazione dei popoli
Per la chef Victoire Gouloubi, la condivisione del proprio bagaglio culturale costituisce il fondamento della sua esistenza, e questo scambio avviene anche attraverso la cucina. Giunta in Italia dal Congo, nel 2001, Gouloubi ha scoperto la passione per la cucina lungo il cammino; un percorso tutt’altro che agevole ma caratterizzato da una serie di conquiste volte a rappresentare le lotte di affermazione che da sempre porta avanti.
L’unione tra le sue radici e i sapori occidentali è alla base della sua cucina. Attraverso di essa, esploriamo insieme a lei la bellezza delle diversità culturali nel mondo gastronomico e i suoi obiettivi per promuovere il continente africano.
Chef Victoire, come è nata la sua passione per la cucina e cosa rappresenta per lei?
Premetto che in Africa il saper cucinare è un obbligo per le donne; può essere anche una passione da coltivare ma, soprattutto, è un dovere. Ora l’Africa si sta modernizzando. Molte giovani donne non sono più vincolate dalle tradizioni come lo erano ai miei tempi, quando era normale che le ragazze imparassero a cucinare. Crescendo tra le zie e le nonne ai fornelli, avevo sviluppato un certo interesse per la cucina ma non era una passione. Avevo altri sogni: un giorno volevo diventare pilota e quello seguente volevo essere come Beyoncé. Ho scoperto l’amore per la cucina lungo il cammino. Oggi, la cucina per me non è soltanto una professione o un modo di esprimermi: è una missione volta all’educazione di interi popoli, di diverse comunità e culture che non sono necessariamente le nostre.
Ha conquistato traguardi da record per una chef africana in Italia: quali ostacoli ha dovuto affrontare?
Giunta a certi livelli, non riuscivo a credere a quello che stava accadendo. Certamente, rappresentava un primo traguardo, ma costituiva anche un periodo estremamente stressante e frustrante, perché ero donna e africana, e di conseguenza non sempre accolta con favore. Trovavo spesso, così come accade ancora oggi, colleghi che mi guardavano con aria di superiorità, affermando: “Noi italiani sappiamo fare meglio, la pasta è una nostra specialità”. All’interno delle brigate dei prestigiosi hotel a catena, le squadre sono in genere molto numerose e mi trovavo costantemente a dover affermare la mia autorità nei confronti di colleghi che non accettavano una donna proveniente dall’Africa.
La gioia era presente ma c’era anche tristezza, perché ero costantemente sola; non c’erano altre persone provenienti dall’Africa, qui in Italia, che svolgessero ruoli simili, con cui potessi condividere le mie esperienze e confrontarmi. Gli ostacoli consistevano in numerose critiche e battute di corridoio, oppure nella ricerca di pretesti per insinuare che io non fossi all’altezza e che non avrei dovuto essere assunta. Queste erano le mie lotte personali, di affermazione e, soprattutto, di confronto tra razze: un aspetto presente ancora oggi e difficile da superare.
Attraverso la sua cucina, Congo e Italia si uniscono. Cosa raccontano di lei?
La mia cucina parla innanzitutto di me: sono nata chef in Italia, porto con me le radici della mia terra e le molteplici culture gastronomiche che la caratterizzano, ma ho anche imparato nuove tecniche, scoperto nuovi sapori ed esplorato nuovi orizzonti anche in Occidente. La mia cucina narra la storia della mia vita, riflette la mia visione del mondo e come desidero unire le persone intorno al tavolo, affinché si possa discutere di sostenibilità, sensibilità e cambiamento.
Lei esprime il suo amore per la cucina italiana e quella africana utilizzando una gamma infinita di ingredienti, alcuni anche difficili da procurarsi in Italia. Come rendere questo connubio vincente?
Faccio un parallelo: è simile a quanto avviene nelle famiglie miste, dove un genitore è italiano e l’altro proviene da un’etnia diversa. Come si può fare affinché i due membri della famiglia integrino le proprie culture gastronomiche a tavola, senza che i figli rifiutino una per privilegiare l’altra? È essenziale trovare un equilibrio e questo ci porta alla questione dell’adattamento, cioè la capacità di conformarsi al contesto in cui ci si trova. Essendo in Italia e desiderando utilizzare i prodotti provenienti dall’immenso continente africano, non è possibile pretendere di trovare ingredienti disponibili ad esempio in Congo, con le stesse caratteristiche e lo stesso grado di freschezza. Pertanto, bisogna adattarsi; se non si trova il prodotto tipico, si cerca un sostituto simile, appartenente alla stessa famiglia, che abbia le stesse proprietà e lo stesso sapore, e lo si adatta, utilizzandolo nella creatività della ricetta che si vuole abbinare con i prodotti del territorio italiano o provenienti dall’Occidente: è così che nella mia cucina riesco a fondere queste due culture.
L’antropologo Clifford Geertz affermò che la cultura è come le persone vedono, interpretano e raccontano la realtà in cui vivono. In che modo le sue radici sono divenute parte integrante del suo lavoro?
Una cosa fondamentale da comprendere è che nessuna si è sviluppata in isolamento; nessuna cultura è immune alla contaminazione. Questo significa che, pur nascendo in un luogo specifico, siamo chiamati a esplorare e scoprire altre culture, portando con noi le nostre radici primordiali, il nostro imprinting, che poi sposiamo e fondiamo con le influenze che troviamo nelle altre culture. Prima di tutto, io rappresento le mie radici. Vengo da un continente la cui cultura è come una tela, intessuta con pazienza e dedizione da generazioni diverse, nel corso del tempo. Le mie radici sono parte essenziale della mia cucina, della mia forza e della mia storia, poiché credo che abbiano contribuito a plasmare la persona che sono fin dalla nascita, e che alla fine ho riscoperto da adulta, comprendendo che la mia strada era quella della cucina. Il mio patrimonio culturale è il mio bagaglio personale, e la cosa più bella è poterlo condividere con altre culture.
Perché, secondo lei, la cucina congolese, e africana in senso più ampio, non gode della stessa risonanza di altre cucine più conosciute quali, ad esempio, quella cinese, giapponese o messicana?
L’Africa è un continente immenso che contiene all’interno della sua superficie l’intero continente americano e europeo. È l’Italia, un Paese in confronto così piccolo, che dovrebbe esplorare un continente così vasto, e non il contrario. Per far sì che la cultura e la cucina africana diventino note, è essenziale avviare una promozione che parta dall’educazione, parlare delle diverse etnie culturali e del cibo, che costituisce l’identità primaria di ogni comunità.
Un’altra ragione è che la richiesta non è così elevata. Uno dei Paesi con il maggior numero di comunità africane è la Francia, che conta da 3.5 a 4 milioni di africani, a differenza dell’Italia dove gli africani sono appena un milione. Di conseguenza, in Francia, la promozione è più agevole poiché le comunità sono più numerose e la domanda è maggiore. Attraverso la mia posizione rappresento molti, perché sono l’unica in Italia nel settore dell’alta gastronomia. Ciò che bisogna fare è facilitare lo scambio e iniziare con una condivisione massiccia: è essenziale che se ne discuta. La mia missione è introdurre in Italia gastronomie e identità ancora sconosciute: solo iniziando a parlarne, scopriremo cosa includono realmente.
Hai dei progetti specifici o aspirazioni che puntano a unire le ricche tradizioni africane con quelle italiane ed europee, oppure che mirano a evidenziare il ruolo cruciale che la cucina ricopre nella vita contemporanea, considerando che, come discusso, la conoscenza e l'apprezzamento delle culture diverse avviene anche attraverso il cibo, e gli chef svolgono un'importante missione educativa in questo ambito?
Certamente, tra i progetti che sto coltivando c’è il Salone di Uma Ulafi (Dallo swahili : “Forchetta Golosa” . Un concept nato nel dicembre 2023 e guidato da Victoire Gouloubi, che mira a far conoscere le molteplici identità sconosciute dell’alta cucina afrocaraibica, n.d.r.). Vorrei che diventasse uno dei più grandi eventi a ospitare le eccellenze delle culture gastronomiche afrocaraibiche e a maggio si terrà la sua seconda edizione. Il mio obiettivo è di narrare e mettere in luce i grandi valori culturali di questo mondo gastronomico.
Uno dei miei sogni nel cassetto è quello di poter intervenire in Parlamento, non certo per diventare parlamentare, ma per poter sottolineare l’importanza di creare un ponte di comunicazione e di scambio equo tra l’Africa e l’Italia, affinché l’Africa possa far conoscere le proprie bellezze. Mi piacerebbe condividere tutto questo attraverso libri (che rappresentano un repertorio senza tempo accessibile alle generazioni future), oltre che tramite documentari e film, come il film che ho ideato e realizzato sulla scoperta delle realtà gastronomiche afrocaraibiche.
Vorrei che l’Africa non fosse considerata solo un continente che fornisce le proprie risorse all’Occidente, ma che si parlasse delle sue vere ricchezze e della sua biodiversità.
Ha un consiglio per coloro che hanno un sogno, ma difficoltà nell’inseguirlo?
Il consiglio è di mantenere i piedi per terra. A volte possiamo nutrire sogni belli ma irrealizzabili nel presente. È importante iniziare gradualmente e avere molta pazienza, poiché credo che ogni progetto, anche se inizia con delle difficoltà, con il tempo avrà l’opportunità di decollare se è valido.
In copertina: Chef Victoire Gouloubi
immagini per gentile concessione dell’intervistata