BABAK KARIMI - Attore e sceneggiatore

BABAK KARIMI - Attore e sceneggiatore

Reduce da un grande successo a Cannes con il film Forushande, di cui è uno dei protagonisti, Babak Karimi, attore e sceneggiatore iraniano legatissimo sia a Praga che all’Italia, ci dà subito l’impressione di essere un professionista entusiasta e instancabile. Lo incontriamo al Café Slavia, uno dei ritrovi storici di Praga, situato vicino alla sede della Film and TV Academy of Performing Arts (FAMU), dove l’attore sta lavorando al suo ultimo progetto, e in maniera semplice ed informale ci racconta la sua storia.

Nato a Praga da genitori iraniani, cresciuto in Italia e residente a Teheran: insomma, un cittadino del mondo!

Sì, ho vissuto in Italia per 40 anni e da 6 sono tornato in Iran.

Cosa porta con sé di tutte queste culture?

Bella domanda! Queste tre culture hanno in comune una grande umanità, l’amore per l’arte, per la poesia. Insomma, un grande calore umano in cui mi rispecchio molto.

Come mai ha scelto di vivere in Italia?

Più che scegliere, direi che sono stato scelto. Ho una storia familiare che parte da lontano. Mia madre arrivò a Roma nel 1949 per studiare canto a Santa Cecilia, come soprano alto. Poi rientrò in Iran, dove iniziò a fare teatro e lì conobbe mio padre. Insieme, tornarono prima in Italia e poi si trasferirono a Praga, dove mia madre studiava regia teatrale alla DAMU e mio padre regia cinematografica alla FAMU, con specializzazione in film di animazione. Nel 1960 nacqui io e tutti insieme tornammo a Roma. Dopo quattro anni decisero di separarsi. Mio padre tornò in Iran e mia madre rimase in Italia. Io frequentai le scuole elementari in Iran ma, volendo stare con mia madre, tornai in Italia, dove alla fine ho vissuto dall’età di undici anni fino ai cinquantuno.

Il cast di Forushande (Il Cliente) al festival del cinema di Cannes (2016)

Il cast di Forushande (Il Cliente) al festival del cinema di Cannes (2016)

Lei è figlio d’arte. Suo padre, Nosrat Karimi, si può definire un artista a 360 gradi: attore, regista, make-up artist, scultore, professore universitario e drammaturgo, mentre sua madre, Alam Danai, è attrice teatrale e regista. Quanto pensa che le Sue scelte professionali siano state influenzate dal successo dei suoi genitori?

Indubbiamente sono stato influenzato in maniera notevole dalla carriera dei miei genitori. In un certo senso, mi sento come quei ragazzini che sono cresciuti nel circo, e che sono abituati ad essere circondati dai leoni, dal domatore, dal trapezista: per loro è normale camminare sulla fune, o fare giochi di prestigio, e per me è lo stesso. Dico sempre che se mio padre fosse stato un falegname forse io, oggi, avrei un negozio di mobili. Quindi per me è stato un percorso naturale, non come quelle persone lontane dal mondo della cinematografia che un giorno, guardando un film di Orson Wells o Antonioni, si innamorano e decidono di intraprendere quella strada. Nel mio caso, fin da bambino, se mi si chiedeva cosa volevo fare, rispondevo di voler lavorare nel cinema: era l’unica cosa che conoscevo profondamente e che mi affascinava davvero.

Quali sono state le difficoltà più grandi che ha dovuto affrontare nella Sua carriera?

In Iran, all’inizio ho avuto delle difficoltà proprio legate al fatto di essere figlio d’arte. Mi facevano pesare tantissimo il successo raggiunto da mio padre e la convinzione generale era che in qualche modo potessi avere la vita più facile, nel cinema, proprio grazie a questa connessione. In Italia, invece, ho dovuto affrontare altri problemi, poiché mi ero trasferito lì come studente, ero un extracomunitario e quindi non avevo un permesso per lavorare, quindi lì sono dovuto ripartire da zero (anzi, da sottozero!), senza alcuna parentela o raccomandazioni. Riuscire ad entrare nel circuito, è stato un percorso lungo e faticoso. All’inizio accettavo qualunque lavoro, pur di esserci. Poi gradualmente ho iniziato a farmi conoscere e ad essere sempre più richiesto, grazie esclusivamente alla qualità del mio lavoro. Questo mi ha formato professionalmente (anch’io, come mio padre, nel cinema ho fatto di tutto), mi ha fatto conoscere meglio la società italiana ma, soprattutto, mi ha aiutato a comprendere la mia misura e il mio valore. Pertanto, le difficoltà iniziali non sono mancate ma adesso sono contento perché, ritornando in Iran, nessuno osa contestare la mia preparazione e, a differenza di alcuni miei amici, anch’essi figli d’arte, che non riescono a dimostrare quanto i successi ottenuti siano effettivamente frutto del loro lavoro o delle circostanze familiari, nel mio caso questi dubbi sono stati completamente spazzati via. È un po’ difficile trovare se stessi avendo questo peso addosso ma per me, grazie all’esperienza guadagnata in Italia, quello che in un primo momento poteva rappresentare un problema alla fine si è rivelato una fortuna: adesso so bene che tutto quello che ho ottenuto, nella mia carriera, è solo farina del mio sacco.

C’è un progetto al quale, invece, Le è piaciuto particolarmente lavorare?

Nella mia carriera ho avuto l’opportunità di dedicarmi a molte cose, anche diverse tra loro e, ognuna di queste, mi ha lasciato qualcosa di positivo. Ho iniziato studiando come operatore poi, strada facendo, ho scoperto il montaggio. Per anni mi sono occupato di reportage e documentari allo stesso tempo e in quel periodo ho viaggiato davvero molto, avendo l’opportunità di visitare anche luoghi remoti e sperduti, come ad esempio molte zone africane in Congo o in Sierra Leone, prima delle rispettive guerre. A tale proposito mi viene in mente una volta in cui, poco prima del mio arrivo in una di queste località quasi dimenticate da Dio, era stato arrestato un uomo del posto per cannibalismo. Insomma, zone sicuramente difficili e non turistiche, ma che mi hanno arricchito moltissimo sia dal punto di vista personale che professionale. Anche in Italia ho avuto modo di girare in lungo e in largo, poiché mi occupavo di una trasmissione dedicata alla provincia: una grande opportunità per conoscere il Paese in maniera più approfondita.

Grazie ad una collaborazione con la pittrice Mahshid Mussavi è riuscito, nel 1991, a far distribuire in Italia, per la prima volta in assoluto, un film iraniano: Bashu il piccolo straniero, di Bahram Beyzai. Com’è stato accolto dal pubblico italiano?

Devo dire, molto bene! Anche quello è stato uno di quegli episodi della vita che, in qualche modo, ti vengono incontro. Mai avrei immaginato, e neanche lo desideravo, di fare una cosa così. Nel 1990 il Festival di Pesaro organizzò una retrospettiva sul cinema iraniano e, al suo interno, la retrospettiva di un autore in particolare, offrendo la visione di 24 film: si trattava di una nuova ondata di cinema iraniano di cui avevo sentito parlare ma che, fino ad allora, non avevo mai visto. Capii subito la potenzialità di questo cinema e, tornato a Roma, mi rivolsi a vari amici distributori, segnalando questa serie di film straordinari. In quella occasione scoprii però una chiusura mentale sorprendente, con persone che mi dicevano che i film iraniani non avrebbero potuto avere successo in Italia pur non avendone mai visto uno. Dopo moltissimi tentativi andati a vuoto un mio amico sceneggiatore, Domenico Saverni, che non smetterò mai di ringraziare, mi disse: “Se non lo fai tu, non lo fa nessuno, perché sei l’unico ad avere una visione completa della situazione”. Invogliato da queste sue parole,  con la collaborazione di Mahshid Mussavi (con la quale – tra l’altro – poi ci sposammo e, in seguito, separammo), distribuimmo questo film che andò davvero molto bene e rimase per tre mesi sugli schermi. Ovviamente, parliamo di schermi d’essai, ma quello fu solo l’inizio di un ciclo che poi vide arrivare in Italia i film di Kiarostami, di Makhmalbaf, e così via. A quel punto i distributori si erano accorti che il cinema iraniano in Italia funzionava e cominciarono ad essere sempre più disponibili ad accoglierli. Io ebbi così la possibilità di tornare a collaborare con i distributori per la scrittura dei dialoghi, le promozioni, o seguire i registi quando venivano a Roma.

Pensa che ora l’Italia sia più preparata ad accogliere lavori di culture differenti oppure, a suo parere, ci sono altri paesi (in Europa, o nel mondo) in tal senso più ricettivi?

Questa, purtroppo, è una nota dolente per l’Italia dove, a mio avviso, a parte una piccola élite, esiste una pigrizia diffusa nel non volersi aprire agli altri. Ad esempio i francesi, in questo senso, sono molto più curiosi. Il loro interesse per le altre culture è spontaneo. Non so, forse è un atteggiamento che deriva dall’esperienza del colonialismo e dal cercare di scoprire cose delle culture altrui che potessero rivelarsi utili anche per loro. In Italia, invece, non è così e devo dire che, personalmente, ho sempre sofferto questa pigrizia da parte degli italiani.  Ad esempio, quando nel 1971 arrivai in Italia nessuno sapeva dove si trovasse l’Iran. Al massimo conoscevano lo Shah di Persia, o Soraya, e pensavano che l’Iran si trovasse in Sudamerica, oppure in Africa.

Durante la Sua carriera ha lavorato con molti registi di prestigio. C’è qualcuno in particolare con cui si è trovato meglio?

Posso dire, senza alcun dubbio, che tutti quanti per me sono stati importanti. Da grosse personalità c’è sempre tanto da imparare e quindi, a stargli accanto, non ci si rimette mai. Una persona con la quale ho lavorato tantissimo, per oltre sette anni, è Kiarostami. Per lui ho scritto i dialoghi italiani di tutti i suoi film, lo seguivo nei workshop, nei vari viaggi, nei seminari: insomma, per me è stato un secondo padre, un fratello maggiore, ma soprattutto un amico. È stato anche colui che mi ha lanciato nella recitazione a livello professionale, offrendomi una piccola parte in Tickets, mentre prima di allora mi venivano offerti solo ruoli da “macchietta mediorientale”. Fu proprio grazie a quel ruolo che Ashgar Farhadi mi chiamò, offrendomi di lavorare in Una Separazione (vincitore, nel 2011, del Premio Oscar come miglior film straniero, ndr). Devo moltissimo a Farhadi perché mi ha formato come attore. Fino ad allora lo avevo fatto per divertimento, attingendo un po’ dalle esperienze fatte da bambino, osservando mio padre, o i suoi amici, ma non avevo una coscienza della mia misura come attore. Con Farhadi questa coscienza l’ho trovata.

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Il 2016 per Lei è un grande anno dal punto di vista professionale. È infatti reduce da Cannes, dove il film Forushande (in persiano, Il Venditore), di cui Lei è uno dei protagonisti, ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti. Qual è il suo ruolo nel film?

Forushande racconta la storia di un gruppo teatrale di cui faccio parte e dove, in qualche modo, interpreto me stesso: infatti il nome del mio personaggio è Babak. Senza entrare troppo nei dettagli, posso solo dire che a due componenti del gruppo capita un evento importante, che darà poi vita a tutta la storia.

Questo ritorno a Praga è casuale o La vedremo lavorare a qualche progetto in città?

La mia presenza a Praga non è casuale: sono nato qui e, all’età di nove mesi, l’ho lasciata, quindi il desiderio di tornarci c’è sempre stato. Per anni ho pensato a questo viaggio ma, per qualche motivo, non c’era mai una vera e propria urgenza. Secondo me i viaggi vanno fatti nel momento in cui ci sentiamo di farli e, alla fine, è stato così anche per Praga. In questo momento sto lavorando a un documentario sulla vita di mio padre, e questa città per lui è stato un crocevia importante, quindi Praga sarà un capitolo fondamentale di questo documentario. Non potevo non tornarci, ed è una bellissima occasione per ripercorrere alcune tappe della vita di mio padre.

Piani per il futuro?

Oltre a lavorare in maniera intensa a questo documentario, sto leggendo moltissime sceneggiature. La priorità, comunque, rimane quella di concludere il progetto su mio padre, che per anni ho rimandato, poi vedremo. Sicuramente tornerò presto a Praga, una città che mi ha colpito moltissimo non solo per la sua bellezza, ma per il grande fermento giovanile che vi si respira. In un certo senso l’atmosfera è simile a quella di Teheran, con l’unica differenza che a Praga si vive in una dimensione più internazionale che in Iran. Entrambi i luoghi sono accomunati da una specie di fuoco, da una grande passione per l’arte, ed hanno lo sguardo rivolto verso il mondo. Spero quindi, in futuro, di poter lavorare a progetti che possano favorire la collaborazione tra i due Paesi.

(Intervista pubblicata sul Volume 1 di CIAOPRAGA)

 

 

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