“CERCO L’UOMO!” - Libri dal passato per il presente
“Al dondolio leggero della barca nella quale restavo lunghe ore, ogni libro sembrava non più un ostacolo da superare ma anzi una chiave che mi aprisse il passaggio ad un mondo del quale avevo già sotto gli occhi uno degli aspetti più maliosi. Spesso mi capitava di scandire ad alta voce versi dei poeti e i nomi di quegli Dei dimenticati, ignorati dai più, sfioravano di nuovo la superficie di quel mare che un tempo, al solo udirli, si sollevava in tumulto o placava in bonaccia” – da Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Tra i ricordi della prima giovinezza emergono le estati agostane trascorse in Sicilia insieme a dei, eroi, ninfe, titani, guerrieri, ecc. Estati in cui ebbi il piacere, infatti, di affacciarmi per la prima volta alla lettura dei grandi classici della mitologia antica.
Leggevo avventure formidabili di un tempo passato, lontano mille leggende dal presente, ma subitaneo sotto pelle, lì dove basta alzare lo sguardo e chiedersi il “perché delle cose”. In quelle letture sfumava il tempo e la storia e si restava soli con se stessi, lasciando che cento e più miti scavassero dentro fino a scoperchiare moti d’animo ctoni, dove anche sentimenti come amore, odio, ira, paura, coraggio, scoramento non hanno filtri e parlano un idioma atavico.
Uno di quei libri fu l’Iliade, trafugata negli scaffali della biblioteca di famiglia. Passavo ore e ore a leggere quei versi, non senza difficoltà, tornando forse più volte su alcune parti, criptiche per una giovanissima mente, ma consapevole che quegli spaccati narrativi avevano la potenza dell’eternità. Mentre il profumato e rovente scirocco si abbatteva sulle pagine, non era inusuale spaziare con la fantasia, ripercorrendo la piana di Troia, alzare verso le mura lo sguardo e osservare tanti astanti trepidare per le sorti degli eroi.
Cento e più sensazioni in quelle estati “mitologiche”, a scoprire nuovi classici del passato, fino a quando la lettura, subentrato il liceo classico, non si destagionalizzò anche ai mesi invernali, confortati allora dai “sempreverdi” autori greci e latini.
Grazie al sapiente indottrinamento alla bellezza degli studi umanistici, si decodificavano i pensieri di mille e più anni, allacciandoli inevitabilmente al proprio vissuto. Attraverso “lingue morte” la potenza della vita. Vale il teorema di Italo Calvino nel saggio dedicato alla poesia Forse un mattino andando in un’aria di vetro di Eugenio Montale (Ossi di seppia, 1925): «Una poesia vive anche per il potere d’irradiare ipotesi divagazioni associazioni d’idee in territori lontani, o meglio di richiamare e agganciare a sé idee di varia provenienza, organizzandole in una mobile rete di riferimenti e rifrazioni, come attraverso un cristallo».
Vedere il mondo con la sapienza degli antichi, grazie al lavoro certosino ed encomiabile dei professori, fu una manovra diversiva all’opinione pubblica, coltivando una spigliata ricerca della verità, ponendosi domande, argomentando intorno alle cose. Non fu inusuale, ai tempi, cavare nelle parole tramandate da Marco Tullio Cicerone nel Laelius de amicitia rimedi per stemperare distacchi e dissapori, e ancora dalla lirica greca non mancarono assist alle dichiarazioni di amore, quelle che nascono in notti senza sonno e per le quali non si trovano parole adatte, degne, semplici.
Ed ecco Saffo balenare alla mente e, di lì a poco, come il riflesso in uno specchio, ci si vestiva di una consapevolezza del VII secolo a.C.: «alcuni di cavalieri un esercito, altri di fanti, / altri di navi dicono che sulla nera terra / sia la cosa più bella, mentre io ciò che / uno ama».
Le voci degli antichi autori arrivano, ripartono, ritornano e sostano nell’animo, fermentando le riflessioni. Ancora Calvino, nella raccolta Perché leggere i classici (Mondadori, 1991), ben chiarisce il punto di vista sulle età in cui ci si accosta ai “classici” (dove per questi lo scrittore include anche letture contemporanee). C’è un tempo in cui i classici sono letture giovanili e «possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. Possono essere formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza». In età matura, continua Calvino, «accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme». Semi che, quindi, si sottraggono all’oblio degli anni, lontani dai banchi del ginnasio, e che restano cullati dal subconscio in uno stadio larvale, fintanto che alcune improvvise reminiscenze non esplodono in piccoli vulcanelli a scomporre il piano musivo del proprio IO e del proprio punto di vista.
In una società dove la velocità depaupera il pensiero, relegandolo allo spot, la lettura dei classici - stuzzicata da una irrefrenabile voglia di legarsi a un albero maestro per non naufragare - rappresenta oggi un porto sicuro dove potersi ristorare: «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori 1991). Non sempre, infatti, il trapassato è tanto remoto da non rimettersi in gioco nelle dinamiche sociali, private o pubbliche, di oggi, soprattutto quando la trattazione è prettamente legata all’umanità.
Non è del pensiero antico avere l’esclusiva della verità, ma è comunque piacevole potersi immedesimare in un pensiero di duemila anni e rivalutarlo come strumento che può certamente influenzare il proprio presente: il valore della misura, dell’equilibrio, della moderazione nell’approcciarsi alle cose di ogni giorno, per fare un esempio, è un principio universale assodato, e fa piacere sapere come il poeta latino Quinto Flacco Orazio ne ricordasse, già nel I secolo a.C., il valore intrinseco in un passaggio delle Satire nel celebre est modus in rebus sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum (“v'è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”. I libro, 1, 106-107).
Risuona molto attuale il pensiero che Giacomo Leopardi, tra i tanti, volle lasciare ai posteri agli inizi dell’Ottocento: «Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica. […] Il presente progresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto» (G. Carducci (a cura di), Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo Leopardi, Vol. VII, Felice Le Monnier 1939).
Un tesoro forsanche “perduto” oggi o, magari, semplicemente valutato come intraducibile per una società che si proietta in un futuro sempre più accelerato da tendenze e mode, pesando l’antichità come una realtà troppo lontana, zavorra per i costrutti fast and furious del pensiero tecnologico.
A guidare in una lenta riscoperta degli antichi e a dare man forte ai sostenitori del pensiero classico si ha oggi la presenza di esperti umanisti che rimettono mano alle opere, da quelle più celebri a quelle meno conosciute, cercando di ricongiungere l’uomo di oggi con quello di ieri in una rinnovata sintonia. Considerato un libro fondamentale sull’argomento è Noi e gli antichi (BUR Rizzoli, 2016) di Luciano Canfora. Il noto filologo tenta un riavvicinamento tra le parti e cerca di spiegare perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, provando a non far collimare in un’unica identità gli antichi e noi ma, al contrario, elabora una metodologia delle differenze. Si ragiona di fatto sulla distanza tra la società dell’altroieri e del presente e in questa logica si cerca di comprendere quale sia l’apporto del passato nell’eredità dell’oggi. Una serie di argomentazioni sono eviscerate al lettore in modo tale che sia chiara la centralità degli studi classici nella formazione del pensiero attuale. Una lucida analisi che cerca di guidare i lettori nella consapevolezza che «la superstite massa di documenti d’ogni genere, relativa al mondo antico, sta davanti a noi come un libro aperto. Attende nuovi lettori, assai meno sereni degli arcadici “degustatori dell’antico”, tipici di altre epoche.
Oggi essi sono investiti dalla durezza del mondo come si presenta all’inizio del XXI secolo e non hanno una stella polare o una bussola a portata di mano. Se le debbono costruire. La lucida ferocia delle società antiche, il coraggio di allora seppe ribellarsi, l’intuizione cosmopolitica e la rivendicazione dell’unità del genere umano caratteristiche delle filosofie stoica ed epicurea, consapevoli delle sofferenze degli invisibili dei “dannati della terra”, sono fattori vitali e possono alimentare la coscienza e la sete di giustizia dei moderni. In certo senso, e a modo suo, aveva ragione il liberal-conservatore Tocqueville quando definiva “pericolose” le scuole dove si leggono i “classici”. Ed è di tale “pericolosità” che abbiamo oggi bisogno». Trasmettere la forza della materia classica diviene, con Canfora, un punto di riferimento per costruirsi una propria rotta su argomentazioni anche di alto rilievo sociale, scevro da mistificazioni e alterazioni che ne deformino la verità.
Una guida ai classici antichi, fornendo degli approfondimenti sul tema, è quella di Piero Boitani che, nel 2017, con la casa editrice Il Mulino, pubblica Dieci lezioni sui classici. Più che un libro, questi saggi su varie opere della letteratura antica, partendo dall’Iliade e l’Odissea, sono il frutto di un’esperienza radiofonica dell’autore, attualmente professore di Letterature comparate all’Università La Sapienza di Roma. Sono letture ben articolate e di uso agile, mantenendo uno stile alto e di spessore. Dai grandi poemi dell’arcaicità, l’autore si addentra sempre più nei secoli, lasciando che il lettore segua le scritture, in prosa o poesia, dei classici, e, al contempo, ne ricostruisce il valore etico e storico dell’epoca in cui furono redatte.
In quest’analisi, come un liquido amniotico, non si può non sentirsi direttamente nutriti dalle logiche di autori quali Lucrezio, Virgilio, Tacito, Ovidio e così via. Si rubricano tanti valori, tante inclinazioni umane, positive e negative, e sembra che l’autore abbia ragionato sul suggerimento di Calvino che, nel suo saggio dedicato ai classici, non smette di raccomandare la lettura diretta delle opere poiché «nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione». Boitani escogita una via di mezzo e riporta interi passi, offrendo sobri, ma ben elaborati, commentari di contorno per aiutare il pubblico a riflettere e a conoscere. A proposito di conoscenza, ad esempio, si dedica ad essa un’intera “lezione”, traghettando la ragione attraverso le tragedie greche di Eschilo, Euripide, Sofocle fintanto ai pensatori quali Anassagora, Platone, Aristotele, Democrito. Il risultato, senza giri di bonarietà, è la conoscenza come sofferenza: «Páthei máthos: questa è l’indicazione di Zeus per il pronéin umano, la “prudenza” che è saggezza e sapienza. Un’angoscia che ricorda le sofferenze: un dolore immenso opprime il cuore dell’uomo e rappresenta la fonte stessa del sapere».
Un formidabile faro nei secoli antichi è l’autrice Andrea Marcolongo. Tra le ultime uscite La lezione di Enea, edito da Laterza nel 2020. Ancora una volta si assiste allo studio del poema virgiliano con un taglio che possa invitare chi legge l’Eneide a rivalutarla come esempio di resistenza e di amore per il sapere. Eppure l’autrice prende le distanze da un pregiudizio sull’eroe troiano, benvoluto, certo, ma considerato, per alcuni episodi, come la fuga da Didone, regina di Cartagine, un po’ debole, così da far ritenere l’intera opera ben meno avvincente dell’Iliade e dell’Odissea. La si legge solo nel momento sbagliato. La scrittrice, di fatto, non ritiene l’Eneide un poema senza spina dorsale ma, semplicemente, non la reputa una lettura «per i tempi di pace. I suoi versi non sono adatti a quando le cose filano lisce». Il poema di Virgilio è invece «destinato al momento in cui si sperimenta l’urgenza di raccapezzarsi in un dopo che stordisce per quanto è diverso dal prima in cui è sempre vissuto. […] l’Eneide è la lettura caldamente raccomandata quando si è nel mezzo della bufera, e pure senza ombrello». Marcolongo tratteggia, attraverso una discesa a piccoli passi tra i versi dell’opera, l’eroe Enea, inteso principalmente come un uomo che non teme persino di piangere e di impaurirsi. A questi sentimenti risponde con audacia e senso del dovere. Cerca di comprende, sforzarsi di apprendere: «a prima vista Enea appare detestabile. Come noi non sa cosa fare, eppure lo fa. Come noi non sa da che parte cominciare, ma nel dubbio comincia».
L’autrice spolvera l’eroe-uomo, lo abbatte, ma in fondo lo apprezza per quello che non è: «Enea non comanda niente […]. Non è neppure tanto forte. […] Avesse almeno un’arma, una ricetta magica, un superpotere che lo distingua da noi banali sopravvissuti. […] Solo una cosa significa essere Enea. Alla distruzione rispondere: ricostruzione. Questa è la sua lezione».
Che siano libri-guida o che sia una lettura diretta delle opere, gli antichi autori non sono mai troppo distanti dalla società del Terzo Millennio, semplicemente perché fin dal suo essere senziente l’uomo ha sempre cercato se stesso, a prescindere dalle epoche. Una ricerca che forse non avrà mai fine, ma alla quale, sicuramente, possono dare un grande contributo pensatori che, attraverso voli conoscitivi anche sofferti, hanno indagato e si sono concessi delle risposte.
Riflessioni di secoli e secoli fa, ma ancora vivide e attuali che possono dare conforto in un periodo in cui c’è sempre più bisogno di umanizzarsi. Queste opere hanno attraversato persino millenni e alla domanda “cosa cercate?” le stesse risponderebbero come il vecchio Diogene di Sinope: “cerchiamo l’uomo!”. Sono libri, infatti, del passato, ma non attendono altro che di essere raccolti e accomodarsi lì dove c’è qualcuno che li ascolti e abbia voglia di raccoglierne l’eredità.
In copertina: Ulisse e le sirene
mosaico del III secolo, autore sconosciuto, Museo del Bardo, Tunisi
(scena ispirata a L’Odissea di Omero)