VOLEVO NASCONDERMI – Un viaggio nel mondo interiore di Toni Ligabue
La prima inquadratura del film ci mostra un solo occhio di Ligabue, che strabuzza da sotto un giaccone in cui ha sprofondato il capo.
Stacco.
Siamo noi dentro quel rifugio improvvisato e la cinepresa in soggettiva ci mostra quello che Ligabue vede: la normalità di un ambulatorio ospedaliero. Ma non c’è normalità in quello sguardo: i movimenti convulsi, il mugolare della voce, ci danno la misura del terrore che incute in lui quella normalità, che teme, e da cui vuole fuggire.
La tecnica narrativa di Giorgio Diritti, nel suo film biografico sul grande pittore naïf cresciuto tra le montagne svizzere e maturato come artista nella pianura padana, è già tutta in quella prima scena. E così il titolo del film.
Volevo Nascondermi è la storia di un essere umano condannato alla solitudine dalla sua diversità: una diversità che non è sociale o sessuale ma del tutto psicologica. Se Ligabue fosse una tartaruga, sarebbe una tartaruga nata senza guscio. Se fosse uccello, sarebbe nato senza penne. Da qui la sua necessità di sfuggire al clamore del mondo, agli scherzi dei ragazzini, alla materialità delle cose e degli uomini e alle sconfitte continue della sua acuta sensualità.
Da qui il carico immenso sul genio interpretativo di un solo attore. Diritti ha scelto Elio Germano, il cui viso ossuto si prestava alla metamorfosi nel pittore ‘matto’ Ligabue ma, soprattutto, ha creduto nel talento dell’attore, che lo ha ripagato in pieno.
Il cinema italiano degli ultimi anni ha portato sullo schermo vari casi di film biografici in cui un viso storicamente familiare ha trovato un equivalente cinematico di grande potenza artistica: dal Renato Vallanzasca di Kim Rossi Stuart al Giulio Andreotti - e poi al Silvio Berlusconi - di Toni Servillo; dal Tommaso Buscetta al Bettino Craxi di Pierfrancesco Favino; e quindi Elio Germano, che già si era distinto col suo Giacomo Leopardi e che ora, con Antonio Ligabue, conferma la sua appartenenza a un gruppo di attori italiani di livello eccezionale.
Germano ha ‘incarnato’ Ligabue, ne ha reso tutta la sua fragilità e, allo stesso tempo, tutta la sua forza emotiva e immaginativa. La pittura era per Ligabue il luogo della fuga, la dimensione ideale in cui nascondersi e, lì sì, poter esprimere ogni desiderio, ogni paura, la sua estrema sensibilità ai colori, agli odori, ai suoni della vita.
Ligabue era un solitario, non solo per il suo status di figlio adottato e abbandonato ma perché incapace di raffrontarsi con la quotidianità: non ne capiva le regole e non sapeva impararle.
Detto questo, il film non ci racconta una storia romanticheggiante di genio e sregolatezza. Né vuol essere una cronaca storico-biografica dell’uomo Antonio Laccabue, rinominatosi Ligabue per allontanarsi dalla figura paterna, per lui causa della morte della madre.
È un’immersione nel mondo di un artista, la cui psicologia è lontana dai parametri con cui ci approssimiamo alla ‘normalità’.
Da qui il punto di vista con cui Diritti ha deciso di narrare la storia. Il mondo attorno a Ligabue ci appare intenso nelle riprese paesaggistiche, così come appare sfocato nella definizione dei personaggi che circondano l’artista, perché così dovevano apparire a lui.
Diritti ci fa capire che dietro al successo dei quadri di Ligabue, grazie al quale l’artista ottenne nei suoi ultimi anni di vita un minimo di agiatezza – che sperperò comprandosi tre auto e dodici motociclette – c’era una cerchia di persone che un po’ lo aiutarono, un po’ lo sfruttarono come una gallina (senza penne) dalle uova d’oro. Queste persone rimangono oggetti sfocati non perché la sceneggiatura sia difettosa, ma perché così doveva percepirli Toni Ligabue.
Un altro tratto distintivo dello stile narrativo di Diritti sono i lenti movimenti di macchina, quasi ipnotici. In questo, Volevo nascondermi è un’opera che ricorda film di un’epoca passata del cinema italiano. Dall’ultimo Roberto Rossellini a L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. È una lentezza che rasenta la staticità e che ci chiede di osservare ogni dettaglio, di ammirare la raffinatezza della messa in scena e la selezione d’inquadrature di grande valore estetico. Allo stesso tempo, è una scelta stilistica che rallenta i tempi dello svolgersi del racconto e che ad alcuni spettatori – soprattutto i più giovani – potrebbe sembrare, alla lunga, un po’ tediosa. Ma anche questo, credo, fa parte della ‘stranezza’ del mondo visto attraverso gli occhi di Toni Ligabue.
Un altro grande “màt” della cultura padana, Cesare Zavattini - anche lui legatissimo ai suoi paesaggi natii - scrisse una lunga poesia su Ligabue due anni dopo la sua morte (Toni Ligabue, 1967): sono quasi trenta pagine in versi prosastici che sicuramente Diritti ha tenuto presente, visto il combaciare di numerose immagini aneddotiche, cui si aggiunge il fatto che Zavattini dieci anni dopo trasformò quel poemetto in un soggetto che portò al telefilm Ligabue, diretto da Salvatore Nocita e interpretato da un magistrale Flavio Bucci.
Erano quasi compaesani, e quasi coetanei, Zavattini e Ligabue; e s’incontrarono più volte, anche se credo che Zavattini aggiungerebbe che non si conobbero mai veramente. E infatti, a differenza di Diritti, Zavattini descrisse il mistero Ligabue dall’esterno e dedicò maggiore attenzione al paesaggio umano di Gualtieri e Guastalla oltre che a quello, ancor più ampio, dell’Italia del secondo dopoguerra. Ma non solo. Alcuni versi creano dei corto circuiti che ci portano dritti a tu per tu con l’uomo e la sua opera e ci aiutano a capire meglio il film di Diritti.
Gli occhi di Ligabue/li ritroviamo all’improvviso/riconoscibili e scrutatori/in un cavallo o un pollo/dei suoi quadri./Forse gli animali/vedono le cose quali sono/per questo tentava/di trasformarsi in loro.
Nei versi che chiudono il poemetto, l’io di Ligabue e il nostro io vengono ad allinearsi e, come nella prima scena di Volevo nascondermi, non è la diversità dell’uomo ad essere proclamata, ma la sua comune umanità:
Gli piaceva la trifola ossia il tartufo?/lo vedo raspare in persona sui fianchi/degli arginelli addentare il tubero che stride/per il terriccio non del tutto tolto./Se dovessi narrare in una riga/la storia di Ligabue/direi che era meraviglioso come noi.
Diritti e Germano, la storia di Ligabue l’hanno narrata in due ore di cinema straordinario, che ha meritato gli onori ricevuti al Festival di Berlino e alla premiazione italiana dei David di Donatello.
In copertina: Elio Germano in una scena del film
Immagini @ Enrico De Luigi (press kit: Fosforopress.com)