SERGIO BARDOTTI – Il grande poeta e paroliere, raccontato da sua figlia

SERGIO BARDOTTI – Il grande poeta e paroliere, raccontato da sua figlia

Uno dei più grandi parolieri e produttori discografici italiani, scomparso nel 2007, Sergio Bardotti fu innanzitutto un poeta oltre che un grande studioso della parola e dei suoi accenti, delle strofe e delle rime. È dalla poesia che tutto è partito, come più avanti ci confermerà sua figlia Michela.

Il primo lavoro di cui si occupa Bardotti è infatti legato alla letteratura, in quanto cura la pubblicazione di una collana di dischi di poesie lette dagli stessi autori (tra i quali Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Pier Paolo Pasolini e Alfonso Gatto). Le collaborazioni con i poeti, risultanti in dischi che vedono l’incontro tra musica e letteratura, continuano poi negli anni successivi con Vinícius de Moraes e Giuseppe Ungaretti, che aveva tradotto e pubblicato una selezione di poesie del poeta brasiliano. Nel 1969, a Roma, de Moraes incontra di nuovo Ungaretti e, con la collaborazione di Sergio Endrigo e Toquinho, registra l’album La vita, amico è l’arte dell’incontro, nel quale Ungaretti recita alcune delle poesie di Vinícius da lui tradotte. In seguito, Bardotti scrive altri due libri con de Moraes: Vinicius de Moraes – Poesie e Canzoni (traduzioni), del 1981, e In via dei matti numero zero, del 1999.

Le collaborazioni internazionali di Bardotti, soprattutto con autori sudamericani e brasiliani, furono numerosissime, e l’opera intitolata Os Saltimbancos, ispirata ai Musicanti di Brema dei Fratelli Grimm, scritta con Luis Bacalov e Chico Buarque de Hollanda è in scena nei principali teatri brasiliani da più di 25 anni. Dopo la scomparsa del paroliere, vennero pubblicati Canzone per te, libro-intervista di Ermanno Labianca e  Bardoci (nome col quale era conosciuto in Brasile), una raccolta di inediti e rarità di Sergio Bardotti interpretati da artisti del Club Tenco

Oltre a scrivere i testi delle più iconiche canzoni di musica leggera italiana, Bardotti si occupò anche di talenti emergenti (a partire da Lucio Dalla) e produsse numerosi cantanti. Tra questi Ornella Vanoni, Mina, Lucio Dalla e Patty Pravo, Gianni Morandi, Ron, Ricchi e Poveri, Mal and The Primitives, solo per citarne alcuni. Insieme ad Antonello Venditti compose l'inno della squadra di calcio della Roma. Collaborò anche con Luigi Tenco, Gino Paoli e Sergio Endrigo, i New Trolls, e Fabrizio De André. Fra le sue canzoni più apprezzate, ricordiamo Occhi di ragazza (per Gianni Morandi), Amico è e Aria (per Dario Baldan Bembo), Piazza Grande, La casa in riva al mare e Itaca (per Lucio Dalla), Canzone per te (con Endrigo) e Quella Carezza della Sera (per i New Trolls).

Abbiamo voluto scoprire qualcosa di più di questo personaggio così eclettico e prolifico e, approfittando della mia amicizia con Michela Bardotti, figlia di Sergio, le ho rivolto alcune domande.

Sergio Bardotti e Lucio Dalla

Sergio Bardotti e Lucio Dalla

Michela, il legame che tuo padre aveva instaurato con la letteratura, la poesia e la scrittura di canzoni di musica leggera è molto affascinante. Raccontaci di come sia riuscito a far incontrare due mondi – quello spensierato della musica leggera e quello impegnativo della letteratura – che possono sembrare molto lontani.

Mio padre era innanzi tutto un uomo di Lettere, una persona molto colta. La letteratura, l’arte e la poesia erano per lui fonte inesauribile di conoscenza: non ha mai smesso di studiare e di leggere. Leggeva in continuazione, dalla letteratura italiana, a quella sudamericana, russa, francese, americana: la casa si reggeva su un muro di libri!

A questo associò la musica, altra sua passione. Assieme agli studi in Lettere all’Università di Pavia, infatti, frequentava anche il Conservatorio (sempre di Pavia), dove si era diplomato in solfeggio ed era al settimo anno di pianoforte. E anche in questo campo non smise mai di studiare. In casa, la domenica mattina (prima delle partite), risuonava solo il suo piano: praticava Mozart all’infinito, ripetendo lo stesso pezzo finché non era soddisfatto. Leggeva senza problema qualsiasi spartito di musica. Ascoltava e studiava la musica, nel senso più lato, ma la base di tutto per lui era la quella classica. Di una stessa opera aveva i CD ed i dischi di tutti i direttori di orchestra che vi avevano lavorato, perché gli piaceva carpire le differenze tra uno e l’altro. Insomma, era un uomo di cultura, uno studioso, e così manteneva viva la sua creatività e dava a essa una base solida e concreta. La sua collezione di CD e di dischi di musica classica era diventata tale che alla sua morte la donammo al Conservatorio di Trento, al cui ex Direttore, il Maestro Armando Franceschini, mio padre era legato da una solida amicizia e da profondissima stima.

Che ricordi emergono quando pensi a tuo padre? Che rapporto avevate?

I ricordi di un uomo che insegnava a essere curiosi della vita e a guardare il bello in ogni cosa: da un quadro a un libro, da un disco a un piatto di cucina o a un bicchiere di buon vino. Era amante della vita e con i suoi occhi verdi guardava tutto con interesse. E lo trasmetteva anche a noi. Se ho viaggiato tanto, se ho studiato cinese e se ho vissuto in Cina, è perché lui ebbe una visione del futuro in tempi non sospetti, quando internet non esisteva e le notizie del mondo non arrivavano cosi veloci, evidenti e immediate.

A tal proposito, papà amava studiare le lingue (cosa che ho ereditato da lui). Ne parlava fluentemente alcune e, tra queste, il portoghese/brasiliano divenne il suo punto di forza. Tra le tante, a un certo punto cominciò a studiare anche il cinese e ricordo, da ragazzina, il salone di casa coperto da fogli di carta di riso, pennelli e pennini con inchiostro di china che lui scovava non so dove, e un disco di fonetica cinese in sottofondo; e lui che si esercitava con la calligrafia e ripeteva quello che la voce dal disco diceva: i toni della lingua cinese li ho imparati prima da lui che all’Università.

Quindi se ho studiato lingue orientali, una certa influenza su questa mia scelta l’ha avuta anche lui.

Bardotti (in alto a destra) con Gepi e alcuni calciatori della Roma

Bardotti (in alto a destra) con Gepi e alcuni calciatori della Roma

Com’è stato vivere con un personaggio creativo così famoso, che accoglieva in casa artisti, poeti, musicisti di fama internazionale? Di quale personaggio – o personaggi –  hai i ricordi più particolari o più vividi?

Per noi avere in casa personaggi famosi era normale: facevano parte della nostra vita. Erano più i nostri compagni di scuola a rimanere folgorati. Ricordo ancora il giorno in cui tornai a casa da scuola con un amico e ad aprire la porta fu Baglioni. Credo che il mio amico si stia ancora riprendendo dallo shock, a distanza di tanti anni, quando per me era solo “Ciao, Claudio”! Oppure quando papà scoprì Dalla e credette in lui talmente tanto che chiamò i muratori e letteralmente trasformò l’enorme garage di casa in un appartamento per Lucio e la sua gang (incluso Ron). Lucio è stato in casa da noi per molto tempo, prima che il suo successo esplodesse tra il grande pubblico.

Mio padre occupava molto della nostra vita, e come per ogni artista, ci toccava seguirlo. Qualsiasi idea nuova che gli venisse in mente, diventava di tutta la famiglia. Se si fissava su qualcosa, eravamo tutti attorno a lui.

Aveva passioni folgoranti per ogni cosa. Ricordo, quando scoppiò la moda della ‘medicina naturale’, che decise di studiare tutte le erbe medicinali, e i viaggi da Roma a Milano divennero infiniti. Si fermava spesso sul ciglio dell’autostrada, scavalcava il guardrail e s’incamminava nei campi (e noi in macchina ad aspettare!). Dopo un po’ tornava con fasci di rami, fiori, erbe e quant’altro aveva raccolto. Per il resto del viaggio, mentre lui guidava, i miei fratelli ed io, nel sedile posteriore, ci occupavamo di catalogare le piante, consultando i libri di erbe che aveva sempre con sé per trovare i i nomi di tutto quello che aveva raccolto. E lo stesso valeva per ogni sua passione: la pipa, il tabacco, le figurine Panini, le lingue straniere, i francobolli (l’unica passione, quest’ultima, che continuò a coltivare nel tempo).

Come viveva la sua giornata tipica Sergio Bardotti e da cosa prendeva ispirazione per scrivere i testi delle canzoni? Raccontaci qualche aneddoto legato al lavoro di tuo padre.

Se non era impegnato negli studi di registrazione o in produzioni televisive, era a casa studiare e scrivere. Non credo di averlo mai visto “fare nulla”. La sua testa doveva essere impegnata sempre in qualche cosa: lo studio della musica innanzitutto, e poi la lettura, oppure il coltivare la passione del momento. Spesso venivano a trovarci amici e colleghi e si chiudevano nello studio con lui per creare qualcosa di nuovo.

In realtà le sue giornate le riempiva sempre, e lo faceva con doviziosa disciplina. Aveva il suo studio in casa con il pianoforte, gli spartiti, lo stereo, i libri, i dizionari, la sua Olivetti, i dischi, mille penne e matite: tutto quello che gli serviva era lì.  La domenica pomeriggio, poi, il calcio prendeva il sopravvento ed era il suo momento di relax, così come giocare a ping pong con Sergio Endrigo!   

Era un libero professionista e si auto-disciplinava moltissimo. L’ispirazione arrivava da ogni minima cosa: dalle emozioni, da quello che osservava (ed era un grande osservatore!). Guardava alla vita di ogni giorno e al personaggio per cui doveva scrivere. Voleva essere reale, semplice e sincero nel suo scrivere, perché per lui le parole dovevano arrivare al cuore.

Video: omaggio a Sergio Bardotti (2003)

Sei una donna in carriera che, dopo la laurea in cinese, da anni occupa posizioni a livello manageriale nel campo del tessile. Qual è la lezione di vita che hai tratto da tuo padre e quanto la figura di questo celebre papà ha influenzato le tue scelte?

Ci sono diversi aspetti che sia io che i mei fratelli abbiamo ereditato da lui. La curiosità per tutto quello che ci sta attorno, per lo studio di nuove cose – anche nel lavoro –, per i viaggi e, soprattutto, l’importanza dell’uso della parola nella vita di tutti i giorni.

Lui in effetti ha voluto che tutti i noi figli avessimo un titolo di studio superiore. Non ha mai spinto nessuno di noi a seguirlo nella musica, che riteneva un campo difficile dove – a parole sue – sono necessari talento, costanza e perseveranza: se manca uno solo di questi elementi non si arriva a nulla. Aveva un enorme rispetto per il modo universitario e accademico, per cui riteneva lo studio fondamentale.

Era orgoglioso di ognuno di noi figli e delle nostre scelte, di cui ha rispettato e appoggiato le diversità. Ha sempre, però, insistito e voluto che avessimo un “titolo di studio”, perché voleva darci la possibilità di scegliere e di essere persone libere e indipendenti, anche da lui e dalla sua fama.

In effetti, credo che quella sua definizione di “talento, costanza e perseveranza” ognuno di noi l’abbia poi tradotta e adattata alla propria vita.

Riteneva che il lavoro desse dignità all’essere umano. Era una persona molto riservata, non si vantava del suo successo e, quando lavorava ad un progetto, dava tutto se stesso, così come alla famiglia: ci dava anima e cuore. E questo è stato, forse, il suo più grande insegnamento per tutti noi.

In copertina: Sergio Bardotti
immagini per gentile concessione di Michela Bardotti

 

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