LE EVOLUZIONI DEL GIORNALISMO - Dalla terza pagina al Web
Dalla terza pagina al Web, come è cambiato il giornalismo culturale italiano?
La curiosità di conoscere le nostre radici culturali non può esimere dalla chiave di lettura che un tempo veniva divulgata dai giornali. E di fatto, anche nel giornalismo si scorge un filo conduttore con la nostra storia.
Ancor prima di intraprendere i miei studi di giornalismo ho sempre cercato degli spunti di riflessione che mi motivassero a perseguire le mie ambizioni con responsabilità e spirito critico. Già da giovanissima, mi ero sempre chiesta quale fosse stata la strada tracciata nel passato e, soprattutto, come venisse data voce alla cultura in un periodo contraddistinto da forti trasformazioni culturali, politiche, sociali ed economiche come il Novecento. Fin da bambina, durante le mie visite ai nonni, mi sentivo attratta dalla libreria e dai giornali immancabili sulla poltrona di mio nonno. Già lì, in cuor mio, avevo capito cosa sarei voluta diventare da grande.
L’evoluzione del giornalismo italiano nel Novecento è senz’altro passata attraverso la penna di grandi letterati e il 10 dicembre 1901, sul Giornale d’Italia diretto da Alberto Bergamini, uscì la terza pagina, spazio che da quel momento venne dedicato alla cultura. In quei giorni a Roma venne messa in scena la tragedia Francesca da Rimini di D’Annunzio e Bergamini decise di dare all’evento massimo rilievo, dedicandovi l’intera terza pagina.
È qui che mi chiedo: quale sono state le origini della pagina culturale per antonomasia? Quali le sue evoluzioni? Trovo le risposte in un libro che per me sarebbe diventato prezioso: Parola di scrittore di Carlo Serafini.
In realtà la “terza” fu il frutto di un processo iniziato a cavallo dell’Unità d’Italia, quando gli intellettuali impegnati a diffondere gli ideali unitari percepirono nel giornalismo la possibilità di una remunerazione economica e iniziarono, così, a proporre la cultura nell’informazione. Nacquero, infatti, quotidiani come Il Capitan Fracassa e i supplementi culturali domenicali come Il Fanfulla della Domenica, che diedero spazio a giovani letterati e artisti. Fu questo il contesto degli accesi dibattiti sulla mercificazione dell’arte. Ugo Ojetti, Verga o Capuana consideravano tali collaborazioni come il mezzo che avrebbe riacceso l’interesse per la letteratura, ma c’era chi, come D’Annunzio o Scarfoglio, vedeva questa funzione come un impoverimento dell’arte: l’assalto della massa sulle élites.
Nei primi anni del Novecento, il pessimismo e l’estetismo del secolo appena concluso, si evolsero in attivismo sociale e politico. Il ruolo degli intellettuali non fu più quello di promuovere gli ideali unitari, ma di attivarsi in difesa del progresso, della borghesia e dello sviluppo industriale. Iniziava il secolo della Belle époque, delle ideologie politiche, dei partiti di massa, delle speranze disattese ma anche della rinascita.
La terza pagina nacque nel periodo della labile democrazia giolittiana (1901-1914). Essa fu lo strumento principale di informazione del ceto medio e delle masse popolari. Croce, ad esempio, scrisse sul Giornale d’Italia gli interventi che anticiparono Letteratura della nuova Italia.
La “terza” venne ripresa anche da altri quotidiani di spicco come il Resto del Carlino, Il Tempo, La Stampa, Il Corriere della Sera o L’Avanti. Sul Corriere della Sera – il quotidiano che vantava il primato di copie vendute – collaborarono letterati dal calibro di D’Annunzio, Pirandello, Corrado Alvaro, Ojetti e Luigi Barzini che, fortemente voluto dall’allora direttore Luigi Albertini, promosse il giornalismo di viaggio e fu il primo inviato di guerra in Italia.
Con l’ascesa del fascismo e il declino della libertà di espressione, molti furono gli intellettuali che si sottomisero alla dittatura. Di fatto, i veri intellettuali dell’epoca furono gli antifascisti come Gobetti, Gramsci, Pintor o Einaudi. Non c’è da stupirsi se molti intellettuali, tra cui autori che rinnegarono il fascismo, parteciparono attivamente alla defascistizzazione, promuovendo analisi critiche del ventennio e un forte entusiasmo per il futuro.
Si fecero più nette le contrapposizioni ideologico-politiche e, di fronte alla brutalità stalinista, autori come Italo Calvino furono pronti a retrocedere da propagande filo-sovietiche. Con la Rivoluzione Ungherese del 1956, si perse la convinzione che la cultura potesse farsi portavoce delle ideologie dominanti. Nacquero testate di spicco culturale come L’Espresso, Panorama o Il Giorno.
Di colpo ci si ritrovò in una nuova società dei consumi: il “miracolo italiano”. Erano gli anni del Sessantotto, dei nuovi linguaggi giovanili e dell’emancipazione femminile, il ponte delle nuove battaglie culturali e sociali degli anni Settanta, quando temi come l’aborto e il divorzio salirono agli onori del dibattito pubblico. Ricchi di spunti furono le riflessioni di Giovanni Testori, Italo Calvino, Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini, di cui esempio emblematico fu il suo controverso articolo “Io sono contro l’aborto”, uscito sul Corriere. Erano gli anni della mafia raccontata da Leonardo Sciascia, delle critiche cinematografiche e dei reportage di viaggio di Alberto Moravia ma anche dell’ascesa di un nuovo medium che di lì a poco rivoluzionò l’informazione: la Televisione. La nascita de La Repubblica nel 1976, e l’inserimento del colore all’interno di un quotidiano, sancì definitivamente l’era dell’infotainment (fusione di informazione e intrattenimento).
È qui che mi fermo e rifletto: sono passati più di cento anni da quando nacque la terza pagina e l’innovazione tecnologica ha trasferito il mondo dell’informazione anche nel Web. Cosa ci hanno lasciato i grandi autori che hanno assunto anche le vesti di giornalisti? In una società così profondamente mutata, cosa possiamo fare per incentivare un giornalismo che anche attraverso le pagine culturali riesca a far nascere dei dibattiti critici?
Trovo una sola risposta: non rinnegare il passato ma neanche rimpiangerlo e, soprattutto, non demonizzare il presente.
Sono una millennial. Sono nata nel periodo più fiorente della televisione ed ho visto arrivare i nuovi media. La televisione, il Web e le reti sociali sono sia il mio passato che il mio presente.
Certo, si può criticare la televisione sotto molti aspetti, in primis la spettacolarizzazione della notizia. Ma non va dimenticato che è anche grazie a essa che, definitivamente, l’informazione non può più essere ritenuta d’élite": da quando è entrata nelle case degli italiani è riuscita a semplificare il linguaggio, contribuendo ad abbattere l’analfabetismo. E poi c’è il Web e ci sono le reti sociali.
Malgrado l’infodemia sia una diretta conseguenza dell’istantaneità del Web, è proprio a noi giornalisti che spetta fermare questa circolazione eccessiva di informazioni, spesso non contraddistinte da accuratezza. È qui che dovremmo trarre insegnamento dai grandi letterati/giornalisti del secolo scorso, cogliendo allo stesso tempo le innumerevoli possibilità tecnologiche: sfruttare i mezzi di cui disponiamo per incentivare dei dibattiti critici, realmente informativi e promotori di cultura.
Non è grazie alla cultura che si scrive la storia?
In copertina: Alberto Bergamini
immagine di repertorio