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NUOVE TECNOLOGIE - La realtà virtuale dai graffiti rupestri di Lascaux alla camera oscura

La realtà virtuale (VR) sembra essere presente, nella storia dell’umanità, da molto più tempo di quanto immaginiamo. Howard Rheingold, critico di nuove tecnologie dell’informazione e coniatore del termine comunità virtuali, collega la tecnologia VR coi graffiti rupestri di Lascaux, nel sud della Francia, sostenendo che essi siano testimonianze evidenti di un sistema virtuale preistorico già in corso.

Le pitture rupestri di Lascaux

“Molte pitture erano ‘anamorfiche’, realizzate in maniera volutamente distorta sulle protuberanze e le depressioni naturali della parete di pietra, con l’intenzione di ottenere una resa di apparenza tridimensionale, se viste secondo luce e punto di vista appropriati. Altre immagini erano incise sulle pareti in maniera tale da rivelarsi solo quando la luce veniva mossa intorno a loro secondo un’angolazione appropriata”.

Quindi, secondo Rheingold, questo dispositivo primitivo costituì il primo passo verso un ambiente virtuale: i segni dinamici possono essere visti come un precoce tentativo di simulare non solo l’apparenza di animali e altri elementi del mondo, ma anche il loro movimento attraverso l’uso del fuoco, che donava una sorta di animazione.

Malgrado la sicurezza di Rheingold nel predire l’inesorabile manifestarsi della VR, la sua idea, come quella di molti altri che hanno investito sull’avvento di questa forma d’arte, resta intrappolata in una visione, un’illusione ottica.

Rheingold congiunge diacronicamente la VR al logos della camera oscura; a una linea di discorso retinico che definisce la realtà in rapporto al suo “schermo” – al dispositivo che separa il reale dal non-reale.

Howard Rheingold

Lo schermo segna il topos del soggetto: nella struttura psicoanalitica, per esempio, lo schermo determina il luogo dove il soggetto si manifesta come altro. Proiettando i propri sogni, memorie e altri accadimenti psichici sulla superficie di uno schermo, il soggetto crea un dispositivo di sé, una rappresentazione del proprio inconscio.

Lo psichiatra, psicoanalista e filosofo francese, Jacques Lacan descrive lo schermo come “luogo di meditazione” nel quale il soggetto “mappizza” se stesso (come altro) nel campo del proprio desiderio.

Jean-Louis Baudry, teorico del cinema, aggiunge che anche il cinema è, prima di tutto, un dispositivo di simulazione. La storia convenzionale del cinema pone la camera oscura come progenitrice dell’apparato filmico. Ed è proprio la camera oscura che, secondo il teorico, viene interiorizzata nell’occhio della macchina da presa e determina, non solo la forma e la struttura della rappresentazione, ma anche lo spazio effettivo della stessa soggettività.

Uno degli effetti iniziali della camera oscura, spiega il critico d’arte Jonathan Crary in Le tecniche dell’osservatore, fu quella di stimolare un ritiro dal mondo. Questo atto di isolamento dal mondo, ritorna al mondo come dispositivo cinematografico. La soggettività è espressa, quindi, tramite il cinema: la macchina da presa perde la propria efficacia poiché il soggetto è diventato egli stesso macchina da presa.

Non è il dispositivo che media il reale ma il soggetto, fatto dispositivo, che svolge questa funzione, rischiando così di perdere il rapporto fisico col mondo reale. Bisogna, pertanto, organizzare accuratamente la mediazione e relazione tra la concezione del soggetto e quella del reale, cosicché si possa comprendere se lo strumento di mediazione VR operi un aumento o una diminuzione delle nostre capacità, e quanto ci allontani dall’esperienza concreta del mondo.

L’analisi di Crary sembra mettere in guardia dall’utilizzo di mezzi che “rischiano di trasformare lo spettatore in dispositivo”.

Da un altro punto di vista, l’esperienza del filosofo francese Pierre Lévy offre piuttosto una riflessione su come il virtuale dia la possibilità all’osservatore di entrare, attraverso la nuova soggettività che offre, in un rapporto addirittura più intenso con il reale.

Alla normale percezione, infatti, dobbiamo aggiungere un grado di complessità derivante dal fatto che la nostra esperienza oggi può essere mediata da varie protesi sensoriali, le quali aggiungono ai sensi naturali una sensibilità artificiale che ci offre la possibilità di far aumentare di grado la nostra percezione.

Il sociologo canadese Marshall McLuhan, sviluppa nei suoi studi un concetto di consapevolezza che il nostro essere passi necessariamente attraverso dinamiche che ci legano alla tecnologia. La presenza della Realtà Virtuale, pertanto, potrebbe spingerci a cercare nuove forme di comunicazione che siano più vicine al nostro essere, un tutt’uno col mondo, e che possano essere la base di una nuova società.