NESSUN UOMO È UN ISOLA - Racconti di solitudini che si incontrano

NESSUN UOMO È UN ISOLA - Racconti di solitudini che si incontrano

Nessun uomo è un'isola, intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della Terra.
Se una zolla viene portata via dal mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica o la tua stessa casa.
Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io sono parte dell’umanità.
E dunque non mandare mai a chiedere
per chi suona la campana: essa suona per te.
(John Donne)

La prima cosa che leggo di un romanzo è l’ultima frase; la seconda è l’esergo. Per questo è stato Hemingway, con Per chi suona la campana, a condurmi fino a John Donne.

“Nessun uomo è un’isola”: la frase mi ha colpito come uno schiaffo in faccia, quasi offendendomi – io che ho sempre pensato, compiacendomi, di essere votata alla solitudine – e lì per lì sono passata oltre. Nel corso degli anni, però, l’incipit della poesia di Donne ha più volte fatto capolino fra i miei pensieri: mentre scrivevo i ringraziamenti di laurea (ahimè, sì, li ho scritti), mentre riabbracciavo i miei genitori dopo una lunga assenza, mentre piangevo sulla spalla di un’amica, mentre confessavo segreti che mi era sembrato impossibile anche solo poter dire ad alta voce.

Non solo: da quando ho scelto i libri come metro di misura del mondo tratto le storie che leggo come esperienze condivise tra me e i personaggi immaginari; non mi sono mai chiesta se abbia senso o meno buttarmi così a fondo nelle letture, ma tant’è, per me l’empatia va allenata.

Comunque, il punto è un altro: questo è stato un mese di poche letture. Sono riuscita a portare a termine solo quelle che mi hanno appassionato di più, ovvero due. E mentre leggevo queste due storie così diverse tra loro, mi è capitato di ripetermi più volte che nessun uomo è un’isola, di ricordarmi che l’umanità è prima di tutto una questione di partecipare all’umanità.

LA VARIABILE RACHEL, Caroline O'Donoghue

Rachel e James hanno poco più di vent’anni, abitano a Cork, in Irlanda, e si conoscono nella libreria dove lavorano entrambi. Lei studia Lettere, lui sogna di fare lo sceneggiatore. Si scelgono da subito, la loro amicizia diventa totalizzante: decidono di diventare coinquilini e cercano di tirare a campare conciliando le loro continue sbronze con le loro ambizioni.

Rachel confida a James di essersi presa una cotta per il suo professore di Letteratura, Fred Byrne. L’amico, un po’ per gioco un po’ per audacia, convince la ragazza a tentare un piano per sedurre l’uomo. Come nella classica delle commedie degli equivoci, Byrne si innamora di James e Rachel diventa la stagista della moglie di Byrne, Deenie. La protagonista cercherà di mantenersi in equilibrio tra l’amicizia con James, il lavoro e la relazione col suo primo, vero amore James (omonimo dell’amico) Carey.

La grande forza di questa commedia deliziosa e ben costruita è il tono dissacrante che non cerca giustificazioni, tantomeno compassione. Quella narrante è una voce risolta che racconta gli anni più turbolenti e incerti da vivere a questo mondo; gli anni in cui cerchi di darti una direzione e pensi che da quella che sceglierai a vent’anni dipenda la tua intera esistenza. Soprattutto, questo romanzo parla di un legame assoluto e categorico, un’amicizia che diventa casa: ciò significa appoggio, cura, protezione ma anche mancanza di spazio, bisogno di evasione e lavoro continuo. Rachel e James sono due solitari che si trovano e decidono di coprirsi le spalle a vicenda, costi quel che costi.

LE NOSTRE ANIME DI NOTTE, Kent Haruf

Addie Moore e Louis Waters sono vicini di casa a Holt, in Colorado: entrambi vedovi, entrambi vivono soli nelle loro abitazioni. Una sera Addie si presenta da Louis con una richiesta particolare: che dormano insieme di notte, per sconfiggere la solitudine. Inizia, così, la loro spregiudicata ma tenera relazione fatta di aneddoti sussurrati, rivelazioni, pareri condivisi.

I cittadini di Holt non faticano a notare la nuova abitudine dei due anziani protagonisti e le voci della frequentazione arrivano lontano, fino a raggiungere i loro figli. Il secondogenito di Addie, Gene, decide di frapporsi apertamente tra i due, che sono ormai innamorati, e minaccia la madre di non farle più vedere il nipote Jamie se dovesse continuare a vedere Louis.

Tenero, intenso e minimal, il romanzo postumo di Haruf mi ha colpita in pieno petto: i due protagonisti decidono di scoprirsi pezzo di un unico continente, di arginare coraggiosamente la solitudine nella quale si vedevano ormai relegati a causa dell’età.

Addie e Louis si insegnano a vicenda che le storie ripetute dalla moltitudine di voci di una piccola comunità possono ancora essere raccontare in forma inedita, che c’è sempre spazio per l’altro accanto a noi e che arrendersi alla solitudine non è una decisione autentica.

Addie e Louis si scelgono non solo la prima notte, ma anche tutte le altre: finché possono, si scelgono. E quando non potrebbero, in fondo, continuano a difendere quel piccolo arcipelago che hanno costruito.

         Non siamo interi in noi stessi, anche se a qualcuno piace raccontarselo (anche a me, alcuni giorni), e questa è una fragilità privilegiata che ci consente di essere parte di qualcosa e difendere lo spazio dentro al quale decidiamo di fiorire. Le ultime letture me lo hanno ricordato molte volte, per questo ne restituisco voce.

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