GIOVANNI CAPRIOTTI - Fotografo, vincitore del World Press Photo 2017
Romano verace classe 1972, Giovanni Capriotti è il trionfatore assoluto del World Press Photo 2017, nella categoria Sport Stories, con “Boys Will be Boys”, un reportage sulla prima squadra “gay friendly” di rugby a Toronto. L’amore di Capriotti per la fotografia nasce fin da bambino, quando sua nonna – che lavorava in una pensione – un giorno gli portò a casa una vecchia Yashica dimenticata da qualche turista. Insieme ad una Polaroid regalatagli per la prima comunione, diventeranno i suoi primi sguardi fotografici sul mondo. Dopo essersi trasferito in Canada, nel 2015 si laurea in Photojournalism al Loyalist College. Come freelance scatta per le principali testate e riviste canadesi e diverse pubblicazioni internazionali. Spesso collabora con le nazioni unite (UNHCR) e ONG di vario tipo. Inoltre è un multimedia image/video producer per l'Università di Guelph-Humber.
Un romano a Toronto. Come ci è finito?
Mi sono trasferito in Canada nel 2009. In quell’anno la mia vita cambiò radicalmente. Avevo lavorato per molto tempo presso una nota compagnia italiana che però, proprio in quell’anno, mise alla porta 4mila dipendenti. A quel punto decisi di reinventarmi trasformando la fotografia, da sempre una grande passione, nel mio lavoro a tempo pieno. Una rivista mi commissionò un incarico in Asia: avrei dovuto realizzare un reportage fotografico sulla discarica di Steung Meanchey a Phnom Pen, in Cambogia: un luogo infernale, dove la popolazione vive letteralmente sommersa dall’immondizia e sopravvive lavorando per meno di due dollari al giorno, o riciclando materiale di scarto.
Con l’occasione decisi di prolungare il mio soggiorno nel continente asiatico, includendo nel programma alcuni progetti personali, così intrapresi un lungo viaggio che partiva da Bangkok fino ad arrivare a Pechino, passando attraverso Tailandia, Vietnam, Laos, Cambogia e Cina e soffermandomi in particolare nel Tibet orientale, che avevo già visitato. Qui potei completare la mia storia “Lords of the Grasslands”, un servizio sulla popolazione Khampa, e fu proprio in quel periodo che incontrai Meredith, la mia futura moglie. Anche lei, dopo aver vissuto per diversi anni in Australia, aveva optato per un lungo giro attraverso l’Asia e l’Europa prima di rientrare in Canada, il suo Paese d’origine. Decidemmo di continuare a viaggiare insieme in Cina e poi – dopo un mio breve rientro a Roma – in Bulgaria, in Turchia ed, infine, a Parigi. In autunno la raggiunsi a Toronto e il 12 dicembre di quell’anno ci sposammo.
Il mio primo periodo in Canada non fu facile. All’inizio lavoravo soprattutto grazie ai vecchi contatti creati in Italia. Nel 2010 però, ricevetti il mio permesso di soggiorno e da lì le cose iniziarono a migliorare, pur non avendo ancora un’occupazione stabile: lavoravo soprattutto fuori dall’ambito giornalistico. Nel frattempo, nel 2012, nacque mia figlia Lulu. Alla fine di quell’anno trascorremmo tutti insieme un lungo periodo in Europa, prima a Roma e successivamente a Istanbul, dove mi dedicai ad un progetto sulle diverse etnie che da secoli vivono gomito a gomito in questa incredibile città: 18 milioni di persone, un vero e proprio crogiuolo di razze che divide la città in micro-stati ma dove riescono a convivere secolarismo e modernismo, valori tradizionali e valori moderni.
Quel progetto contribuì, in qualche modo, a rendermi più consapevole del mio ruolo e della direzione che volevo prendere come fotografo, così al rientro in Canada mi iscrissi all’Università. Dopo un primo tentativo di seguire un corso di “Fine Art Photography” mi accorsi che in realtà, ciò che mi interessava davvero, era specializzarmi in “Photojournalism”, quindi approdai al Loyalist College, dove mi laureai nel 2015. Dopo l’Università ottenni una collaborazione con la Montreal Gazette e mi trasferii. Allo stesso tempo iniziai a lavorare come freelance anche per il Toronto Star: una collaborazione che nel tempo si è intensificata e che mi ha riportato, oggi, a rientrare a Toronto.
Oggi, quindi, vive in Canada e la sua vita l’ha portata a fare moltissime esperienze intorno al mondo, ma Roma è il luogo dove tutto è cominciato: che rapporto ha con la sua città?
Amo la mia città. Con l’Italia ho un rapporto di amore-odio ma per Roma provo solo amore. Ebbi l’opportunità di riscoprirla nel periodo in cui rimasi senza lavoro, subito prima del mio viaggio in Asia. Quando si vive in un posto si tende a darlo per scontato, quasi ad ignorarlo. In quel periodo, invece, avendo tanto tempo a disposizione iniziai a camminare tantissimo, ad osservare: ripresi possesso della mia città.
Roma è una città unica e irripetibile. È inevitabile che ancora oggi, dopo tanti anni che vivo lontano, mi manchi tantissimo. Per fortuna, però, ogni volta che torno ho la possibilità di godermela appieno, in massima libertà: mia figlia, infatti, viene letteralmente sequestrata dai miei genitori, che approfittano di quelle poche settimane all’anno per trascorrere ogni singolo istante con la loro nipotina; quindi io posso approfittarne per rivedere i miei amici d’infanzia senza, per questo, sentirmi in colpa.
Ovviamente non sono più la persona che lasciò Roma otto anni fa. Alla mia creatività italiana ho aggiunto una buona dose di pragmatismo nordamericano. Questo si riflette anche nei rapporti con le amicizie di sempre, che nel tempo si sono evolute, sono maturate, ma nel profondo sento di essere sempre lo stesso: romano e italiano. Anche se ho trovato la mia strada all’estero, la mia città ed il mio Paese sono la mia essenza.
Il mio legame con Roma, però, è sempre stato più viscerale che fotografico. Fino a poco tempo fa non avevo mai scattato nulla che la riguardasse ma da qualche tempo ho avviato anche lì un progetto personale, dal titolo “The winter of my youth”. Si tratta di una riflessione sul concetto di mobilità degli esseri umani: da coloro che per cercare opportunità si trasferiscono all’estero, a quelli che per mille motivi si spostano all’interno della città stessa, fino agli individui che per abitudine, o semplicemente per mancanza di coraggio, rimangono fermi, quasi prigionieri dei loro limiti. È un progetto che mi stimola molto, perché contiene molti elementi autobiografici e, in un certo senso, così come spesso accade con il mio lavoro, è un percorso che mi costringe a guardarmi dentro, aiutandomi a crescere e a diventare una persona migliore.
Com’è nata l’idea di Boys Will be Boys, la storia che le è valsa la vittoria al World Press Photo 2017?
La genesi del progetto è nata nel 2010, mentre partecipavo con mia moglie alla “Pride and remembrance run”. Dei ragazzi mi diedero un volantino della “Toronto Muddy York”, una squadra di rugby canadese “gay friendly”, o “inclusive”, come dicono in Canada. Mi venne subito in mente di realizzare un servizio su di loro ma, tra le tante cose da fare, il volantino finì in naftalina. Qualche anno dopo lo ripresi per presentarlo come progetto all’università ma, ancora una volta, non ebbi tempo di portarlo avanti. Subito dopo la laurea, in occasione del “Gay Pride” di giugno, mi resi conto che quello era il momento giusto per proporre la storia: la pubblicò il “Globe and Mail”, il principale quotidiano nazionale canadese, ma dopo un po’ di tempo venne dimenticata. A dicembre del 2015, mentre ero in Italia per le vacanze di Natale, fui contattato dalla squadra, che mi proponeva di continuare a documentare la storia durante la loro partecipazione alla Bingham Cup.
Mark Kendall Bingham era un rugbista statunitense che fu tra le vittime del volo United Airlines 93, dirottato durante gli attentati dell’11 settembre. Il volo era diretto sulla Casa Bianca ed alcuni passeggeri, nella colluttazione con i dirottatori, lo fecero precipitare in un campo della Pennsylvania. Bingham era uno di quei passeggeri. Il suo atto di coraggio è considerato una risposta agli stereotipi comunemente diffusi sulle persone gay ed al suo nome è oggi intitolato il più importante torneo rugbistico internazionale: appunto, la Bingham Cup.
Accettai l’incarico e a maggio partii con la squadra per Nashville. In quel periodo ebbi accesso totale alla vita dei giocatori e diventai parte integrante del team. Questo mi permise di conoscere a fondo i soggetti delle mie fotografie e di comprendere sempre meglio quale fosse il mio obiettivo: alla fine, la storia che ho poi sottoposto – a dicembre del 2016 – al World Press Photo, si è evoluta destrutturando e ridescrivendo il concetto di mascolinità all'interno della performance sportiva.
A fine gennaio ricevetti una email dagli organizzatori del concorso, in cui mi venivano chiesti i file originali: a quel punto capii di essere tra i finalisti e per me cominciarono due settimane di passione, fino a quella mattina del 13 febbraio quando, dopo una notte insonne, alle 5 del mattino scoprii, da un articolo di “Time”, di aver vinto. All’inizio, quando lessi il mio nome, non riuscivo a crederci. Poi, lentamente, realizzai. La mia seconda reazione è paragonabile a Daniele De Rossi che corre sotto la curva sud, dopo il gol al derby: non vedevo l’ora di condividere la notizia con Meredith e Lulu. Un risultato del genere, per qualsiasi fotografo, significa il riconoscimento di anni di sacrifici.
Quale pensa sia stato l’elemento vincente del suo reportage?
Credo che alla storia sia stato riconosciuto il fatto di essere “non convenzionale”. Il World Press Photo è uno dei pochi concorsi nei quali il materiale presentato viene giudicato nell’arco di un mese, anziché in poche ore, e questo ha permesso a chi doveva esprimere una valutazione di riflettere sulle implicazioni profonde di ogni storia presentata.
Il mondo in cui viviamo è decisamente “maschiocentrico” e perfino io, che avevo sempre pensato di essere lontano dalla mentalità omofobica, mentre lavoravo a questo reportage mi sono accorto che, di default, la società ci abitua a considerare il concetto di femminilità come inferiore, o comunque più debole rispetto a quello di mascolinità. Sono quindi grato a questo progetto perché il suo processo creativo mi ha permesso di superare anche certi pregiudizi personali che erano radicati in me, mio malgrado, e diventare una persona migliore: per me questo è l’aspetto più importante della mia professione. Credo che “Boys will be boys”, alla fine, abbia fatto emergere la propria matrice prettamente femminista, pur avendo atleti maschi come attori principali. Non sono stati in molti, ad accorgersene. Tanti si sono limitati a considerare il reportage come una semplice storia di sport ma, qui, sono racchiuse tante sfumature di una società moderna che tende ad allontanarsi sempre più da schemi e pregiudizi, e sono davvero grato alla giuria del WPP per averle sapute cogliere e premiare.
Quale messaggio vuole trasmettere, con il suo lavoro?
Non intendo trasmettere messaggi ma semplicemente soddisfare la mia curiosità. Sono generalmente attratto da soggetti che ricevono poca copertura a livello mediatico. Mi piace investigare e raccontare le cause dietro una storia: è un po’ una sfida con me stesso ed ogni storia, in qualche modo, mi permette di conoscermi meglio. Non sempre, però, quello che racconto con i miei scatti arriva a destinazione: purtroppo ogni lavoro deve passare attraverso gli editor dei giornali i quali, si sa, sono i più grossi censori. È sempre chi pubblica a decidere quale storia raccontare.
La fotografia, oggi, si può considerare una professione oppure una sfida?
Oggi siamo sommersi da milioni di singole, ma una singola immagine può essere scattata da chiunque. Un professionista si riconosce, invece, dalla capacità di raccontare con consistenza e perseveranza delle storie valide. Non credo, però, che in passato il lavoro del fotografo fosse più semplice, anzi…Forse la differenza risiede nel fatto che una volta poteva essere più facile entrare a far parte di una redazione mentre, nel panorama attuale, l’elemento essenziale per fare della fotografia una professione è la diversificazione. Un fotografo deve avere la possibilità di scattare ciò che desidera ma spesso, per fare questo, anche un professionista ha necessità di accettare incarichi commerciali sapendo che, in fin dei conti, sono quelli che gli danno la tranquillità economica per poter poi finanziare i propri progetti personali. La diversificazione, quindi, si può considerare l’anima della fotografia moderna.
Ha altri interessi, oltre alla fotografia? In che modo influenzano i suoi scatti?
Ho moltissimi interessi dai quali traggo continua ispirazione. Posso dire di essere influenzato da tutto, a partire dalla musica, all’ambiente circostante, alle relazioni umane, ai viaggi. Tutte le mie esperienze sono state importanti, sia quelle positive che quelle negative, perché mi hanno trasformato nella persona che sono oggi.
Prossimi obiettivi?
Al momento sto lavorando ad alcuni progetti commerciali, ma anche a varie storie personali. Tra queste ultime, sono nel mezzo di un progetto che investiga le condizioni socio-economiche di Manitoulin Island, l’isola d’acqua dolce più grande al mondo, situata sul lago Huron. Si tratta di un’analisi sulle dinamiche culturali e sociali che ruotano intorno all’isola, come ad esempio la cultura aborigena e quella bianca che, pur convivendo, qualche volta finiscono, inevitabilmente, per scontrarsi, oppure la mancanza di lavoro che spinge, da una parte, i giovani ad abbandonare l’isola per andare a cercare opportunità fuori e, dall’altra, i pensionati a tornare nei loro luoghi d’origine. Nel cassetto, poi, ci sono una miriade di altri progetti. Il mio lavoro è in continua evoluzione!
(Intervista pubblicata sul Volume 6 di CIAOPRAGA)
In copertina: Giovanni Capriotti, scatto di Johnny CY Lam