PIO BALDI - Presidente dell'Accademia dei Virtuosi al Pantheon
Dirigente per molti anni presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Pio Baldi ha ricoperto numerosi importanti incarichi. Già Direttore vicario dell'Istituto Centrale per il Restauro, poi Soprintendente del Lazio e di Siena, Direttore generale per i Beni ambientali e paesaggistici, è stato Direttore generale per l’architettura e l’arte contemporanea (DARC) e Presidente della Fondazione MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo). Ha curato numerosi interventi di restauro di monumenti in Italia e all'estero. È stato membro del Consiglio nazionale dei Beni culturali. È autore di saggi, volumi e pubblicazioni specialistiche sui beni culturali e sull’arte e l’architettura contemporanee. Dal 2003 è Accademico Amministratore dell'Accademia Nazionale di San Luca e dal 2016 è Presidente dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon, nominato direttamente da Papa Francesco.
Ci racconti della sua esperienza a Roma
A Roma mi sono occupato della costruzione del Museo delle Arti del XXI secolo, il MAXXI. Ho seguito la vicenda sin dal 1999, cioè da quando è stato indetto il concorso internazionale per trovare il progettista che lo realizzasse, che ci ha poi portati alla scelta di Zaha Hadid. Con la mia gestione siamo arrivati ad autofinanziare il 50% del budget annuale, cioè 5 milioni di euro su 10, provenienti dagli ingressi, dalle concessioni della libreria e del ristorante e, in parte, anche da alleanze con varie imprese. È stata un’esperienza che mi ha dato molte soddisfazioni; ho realizzato mostre interessanti e il MAXXI ha raggiunto una buona notorietà, quindi l’esperienza è stata davvero positiva. Vedere che il MAXXI continua ad andare bene anche con la nuova governance, è come vedere un pezzo della mia vita che continua in quella direzione.
A cosa si dedica adesso?
Lavoro ad alcuni restauri come libero professionista e poi sono un accademico. A Roma c’è l’Accademia di San Luca – di cui sono sia accademico che amministratore – che ha l’obiettivo di promuovere l’arte e la cultura. Sono inoltre direttore, insieme ad altre due persone, del laboratorio di restauro dei beni culturali dell’Umbria, con sede a Spoleto. E poi sono presidente della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon: nomina ricevuta direttamente da Papa Francesco. L’obiettivo, anche qui, è la promozione della cultura e dell’arte ma non dell’arte sacra, attenzione, dell’arte contemporanea. Infatti la Chiesa ha fatto sempre molto per l’arte contemporanea, anche in modo innovativo e coraggioso. Basti ricordare che ha finanziato le opere di Caravaggio, che era un “ragazzaccio” e, quando doveva dipingere una Madonna, a volte prendeva una donna di strada. Caravaggio ha dissacrato molte icone ecclesiastiche, eppure la Chiesa lo ha accolto in edifici importanti come San Giovanni dei Fiorentini o Santa Maria del Popolo. La Chiesa, relativamente all’arte, è capace di portare grande innovazione e, se ci pensiamo, gran parte dell’arte in Italia ha come committenza la Chiesa cattolica. Insomma, questa accademia promuove l’arte contemporanea per conto della Chiesa; era ferma da anni e mi hanno chiesto di rimetterla in vita. Ora ci vorrà un po’ di tempo, per avere dei risultati.
Lei come attinge alle novità del panorama dell’arte contemporanea? Come entra a contatto con il nuovo?
Sin dai tempi del MAXXI ho contatti con galleristi, fondazioni, artisti; diciamo che non mi mancano le occasioni di scoprire cose interessanti.
Come ha visto evolversi la scena dell’arte contemporanea in Italia, negli ultimi dieci anni?
La scena è dominata da alcuni artisti più noti di altri: per esempio Maurizio Cattelan e Francesco Vezzoli. Quella italiana è una scena non molto forte a livello mondiale, a parte poche figure. Ma direi che, in Italia, è da poco che sta nascendo una consapevolezza del valore dell’arte contemporanea. Una città come Firenze, per esempio, che fino a pochi anni fa non voleva sentir parlare di arte contemporanea e per la quale esisteva solo ed esclusivamente il Rinascimento, adesso si è aperta anche ad eventi importanti. Ricordo la mostra di Ai Weiwei a Palazzo Strozzi: dirompente.
È solo in questi ultimi anni che in Italia si sta sviluppando l’idea che l’arte contemporanea debba avere vita, naturalmente con tutte le attenzioni e le riserve, perché dentro l’arte contemporanea c’è molto scarto, molta presunzione, non tutte le cose sono valide: qualcosa che sembra valido, scompare poco dopo; insomma, non siamo in un campo il cui il giudizio si può esprimere con sicurezza.
Anche i parametri sono cambiati?
Fino all’800, l’arte aveva come parametro l’imitazione della natura e questo è scomparso già con gli Impressionisti: è scomparsa l’imitazione della natura e infatti l’Impressionismo fu considerato all’inizio un’arte “sbagliata”. Poi con Picasso siamo usciti dal campo: anche Picasso, all’inizio, non lo capiva nessuno. Adesso l’arte non imita più la natura, l’arte è riflessione, l’arte è concetto.
Ho notato che i bambini capiscono subito l’arte contemporanea, perché hanno uno spirito intuitivo innato e una freschezza che deriva loro dall’età. Per gli adulti è un po’ più difficile; serve una coscienza critica che derivi dall’aver visto molte cose.
Insomma, è più difficile oggi dare un giudizio sull’arte, di quanto non fosse nei secoli scorsi – sebbene anche nei secoli scorsi non fosse facile. Basti pensare a Borromini, un artista che oggi riconosciamo come un genio e che alla sua epoca era considerato poco meno che un furfante, un impostore che metteva riccioli inutili e decorazioni fastose su edifici che non ne avevano bisogno. Tant’è vero che il termine “barocco”, che rappresenta Borromini, Bernini e Pietro da Cortona, è usato come aggettivo con valenza negativa: se ad esempio io dico di un mobile che mi piace, ma è un po’ barocco, ho espresso un giudizio negativo, perché per barocco intendo dire iper-decorato e iper-lavorato. Invece Borromini, considerato un pazzo per un secolo e mezzo, è stato scoperto solo negli anni Trenta del secolo scorso; Bernini lo stesso.
Questo, per dire che l’arte è sempre difficile da accettare, specialmente quando è innovativa, e bisogna avere l’umiltà e la pazienza di aspettare e vedere che succederà dopo.
Sembra essere, attraverso i tempi, la condanna degli artisti essere incompresi per lungo tempo e vivere queste vite al limite della sopravvivenza. Secondo Lei questo contribuisce a nutrire in qualche modo la necessità dell’artista di esprimere se stesso e il disagio della non comprensione? Se fosse tutto facile, un artista avrebbe comunque qualcosa da dire? È nella ricerca di un linguaggio e nel bisogno di esprimere prepotentemente la propria arte, nonostante le circostanze sfavorevoli, che l’artista alimenta la propria creatività?
Sì, l’arte è ricerca di nuovi linguaggi e di nuovi modi di esprimersi, adatti al tempo in cui si vive e, per i lungimiranti, adatti anche ai tempi futuri. Però si rischia – proprio essendo difficile esprimere giudizi obiettivi – di essere giudicati, come accadde al Borromini, con l’accusa di fare un’arte “depravata”! Come gli Impressionisti… Ma questo perché rarefacevano l’immagine, squagliandola dentro poche pennellate che evocavano immediatamente l’effetto del paesaggio e della natura, senza imitare in modo meticoloso, come facevano invece altri artisti dello stesso periodo.
In questo mondo in cui i social network dominano le relazioni, Lei è mai stato “ingannato” da ciò che aveva visto di un artista prima di incontrarlo?
Certo è molto facile finire in trappola, però io sono anche convinto che l’arte di oggi si debba esprimere con gli strumenti di oggi. Il pennello più importante, oggi, è il pennello “informatico”. Alla stregua di quello che è accaduto in architettura alla fine dell’800 e all’inizio del 900, il ferro e il cemento armato sono diventati materiali di costruzione degli edifici, dei ponti e lì, chi è stato abile ad usarli e a sfruttarli, è diventato un grande architetto: ad esempio, Le Corbusier. Quindi, quando la tecnologia mette a disposizione materiali e strumenti innovativi che possono magari anche essere più vantaggiosi, economici, facili da usare, allora chi sa utilizzare questi strumenti, vince. Quindi, oggi, certamente l’attenzione all’arte digitale deve essere molto forte: l’arte digitale è comunque solo un aspetto delle espressioni artistiche, non è l’unico e neanche il più utilizzato ma, secondo me, va molto seguito, perché può diventare molto importante nell’arte di oggi e del futuro.
Secondo Lei, le politiche italiane relative all’arte e alla sua promozione sono adeguate ad un paese ricco come il nostro?
Parto da una considerazione semplice: chi ha troppo, a volte, non è spronato a fare molto, perché comunque possiede in abbondanza. Basti vedere Venezia, dove non c’è una politica turistica significativa, dove i negozi sono più bottegucce che vendono souvenir per un turismo di “accatto”, delle canottiere, dei panini mangiati sulle opere d’arte…. Ci vorrebbe una politica capace di incentivare il turismo di qualità, quello che ha servizi migliori e che rispetta anche di più i monumenti, le strade, il decoro. Anche a Roma, nelle zone percorse dai turisti, è pieno di negozi orrendi che vendono ricordini balordi, magneti da frigorifero, colossei di plastica… Non c’è mai stata una politica, a Roma, di limitazione di questo tipo di vendita “sottocosto”. Ma non vorrei fare solo una lamentazione, perché non sarebbe giusto. Ad esempio, l’ultimo ministro dei beni culturali ha fatto cose molto positive. Innanzitutto l’art bonus, un dispositivo di legge per cui chi investe per restaurare un’opera d’arte pubblica può detrarre dalle tasse fino a più del 70% di quello che ha speso; questo sta incoraggiando parecchio i privati nel restauro delle opere d’arte pubbliche, attività che peraltro ha, di per sé, dei grandi riscontri in termini d’immagine. L’altro cambiamento positivo introdotto di recente, nei beni culturali, è stato quello di rendere autonomi alcuni musei. Prima i musei facevano parte delle soprintendenze ed erano diretti da funzionari di basso rango, non da dirigenti, quindi non potevano assumere decisioni o iniziative e avere riscontri sulle loro attività. Adesso, avere dei direttori che sono dei dirigenti e che, a fronte di buoni risultati, costruiscono la propria carriera professionale, significa incentivare una gestione virtuosa dei musei. Con questo non intendo dire che il museo che va meglio è quello che fa più ingressi, però anche il numero di ingressi indica che il museo va bene, ed aver messo dirigenti a capo di alcuni musei (ad esempio, Brera, Uffizi, Capodimonte a Napoli, la Reggia di Caserta, la Galleria Borghese, Palazzo Barberini, etc.), permette di avere dei direttori responsabili con incarichi di cinque anni, che devono sviluppare e far crescere il museo in quell’arco di tempo e, se lo fanno bene, questo diventa un loro successo professionale. Certo non è una cosa per tutti i tremila musei italiani, poiché molti di questi non hanno neanche la capacità di autogovernarsi, ma per alcuni credo sia stato importante dare un’autonomia.
A quali paesi europei guarda con interesse per quanto attiene all’attenzione all’arte e alla cultura?
La Francia, secondo me, è un paese interessante, perché una cospicua parte del PIL (più grande di quella che vi dedica l’Italia) viene investita nella valorizzazione del patrimonio culturale e possiede un buon sistema di gestione.
Cosa pensa di tutti gli italiani che sono andati via negli ultimi anni?
Tutte queste persone porterebbero arricchimento al paese, se tornassero dopo le esperienze all’estero e trovassero una collocazione giusta in Italia. Se rimangono fuori, non è un arricchimento ma un depauperamento. Tuttavia mi rendo conto che altri paesi sono in grado di offrire opportunità eccezionali a giovani che in Italia, specialmente nel campo della ricerca, non avrebbero mai neppure un’occasione paragonabile… Quindi, per noi, questa è una perdita secca ma non si può chiedere di tornare a fronte di nulla.
Certo che le opportunità capitano anche a chi azzarda. A me le cose più belle sono accadute quando ho azzardato scelte che in tanti mi sconsigliavano, una fra tutte l’incarico del MAXXI. Mi dicevano che era una sfida persa in partenza: un museo di arte contemporanea a Roma…ci credevano in pochi. Ma io ero convinto che un paese come l’Italia, che è stato all’avanguardia nell’arte per 7/8 secoli, da Cimabue, Giotto, poi avanti con Masaccio, Donatello, Brunelleschi, Alberti, e poi Michelangelo, Raffaello, e così via…, cioè un paese che ha inventato l’arte e l’ha esportata in tutto il mondo, non potesse essere solo retroflesso sull’arte del passato, senza guardare a quella del futuro. Il mio pensiero era ed è che la creatività italiana non si è spenta, non è morta. Quando dovevo convincere i miei interlocutori della bontà del progetto MAXXI, parlavo proprio dell’importanza di guardare ai beni culturali affacciandoli nel futuro e non tenendoli retroflessi nella protezione del passato. Certo, la tutela è comunque importantissima, perché in Italia non ci sarebbero così tanti monumenti se non ci fossero state le sovrintendenze, a tutelarli, sin dal 1909 – nonostante i troppi no che hanno detto nel tempo, perché spesso è più facile dire no per evitare di dover esaminare a fondo un problema, oppure semplicemente per acquisire potere.
Cosa consiglierebbe ad un giovane che voglia “fare arte” come professione?
Gli direi di trovarsi un lavoro e di fare arte nel tempo libero, o anche di colorare di arte il proprio lavoro e farlo diventare un’espressione artistica… Perché fare arte e basta può essere molto faticoso e difficile da gestire. Fare arte è cosa da pochi: l’arte è intuizione, è capacità… non ce l’hanno tutti… I geni sono pochi.
Quanto conta per un artista la capacità di sapersi vendere? È reale l’immaginario dell’artista solitario e rinchiuso in se stesso, sincero e incapace di autopromuoversi?
Ma no! Gli artisti di successo sono dei gran marpioni! Sono campioni del marketing, grandissimi professionisti della comunicazione. In realtà, io credo che la comunicazione abbia invaso anche un po’ troppo il territorio della produzione, della vita, della realizzazione delle cose. Non è un caso che oggi i politici investano tanto sull’ufficio stampa. La comunicazione è diventata, in molti casi, fine a se stessa. Per un artista, tuttavia, la comunicazione è fondamentale: deve avere dei galleristi, esser conosciuto dai potenziali compratori, deve avere la capacità di fare networking e di creare partnership. L’artista isolato nel suo studio, con il soffitto trasparente, che crea l’opera immortale, non c’è e in realtà non c’è mai stato; forse Van Gogh, che infatti è morto povero e disperato ed è stato valorizzato dopo, chissà perché. Ma anche Raffaello era un furfantone, dal marketing pazzesco, che andava in giro per le corti a proporre le sue cose. Anche Bernini, quando Innocenzo X Pamphilj lo mise da parte, con grande scaltrezza partecipò al concorso per la fontana di Piazza Navona, pur senza essere invitato; e venne fuori con una fontana così innovativa che alla fine, Innocenzo X, si lasciò convincere e lo fece vincere. Questo per dire che bisogna sapersi autoproporre, bisogna chiedere. Non si può pensare di essere un genio che prima o poi verrà scoperto: non ti scoprirà nessuno!
(Intervista pubblicata sul Volume 6 di CIAOPRAGA)