UNA PASSEGGIATA A PALERMO - Confusi tra tanta bellezza
I palermitani hanno perso la Cattedrale, come la mia amica ha perso una collanina e da tre anni l'aveva accanto al letto.
La stessa mia amica guarda la Cattedrale ricordando il Buckingham Palace, che pare una casuzza (casa di piccole dimensioni) rispetto a quello che abbiamo davanti. Costruita in duecento anni, davanti alla Chiesa Madre mi dice che facevano a gara le bagasce (donne lussuriose) e intorno folla e delirio. Uno dei tanti momenti goliardici e dimenticati della città, proprio alle spalle di una Rosalia, la nostra santa, che guardava verso il mare.
La statua di Santa Rosalia inizialmente girata verso l'orizzonte, oltre i porti navali della città, è stata spostata verso la strada e c'è chi dice che da quando si è voltata porta male. Chissà quella di New York cosa dice, perché te la ritrovi pure là in “Santa Rosalia Church”, a Brooklyn. È ovunque, ma più precisamente dentro i cuori di chi ancora ci crede.
Il padre della Santuzza (Santa Rosalia è così affettuosamente chiamata dai palermitani), Sinibaldo dei Sinibaldi Vassallo del Re Normanno Ruggero II, dicono che non sia mai esistito e con un nome così possiamo anche crederci. E la figlia? Ci piace tanto. L'abbiamo disegnata in ogni dove, pure sulla pelle. Che fanatici questi palermitani. Ma guai se scendono al centro storico oltre via Maqueda (via principale della città, di denominazione araba): dopo essersi lamentati tutti per la pedonalizzazione, ora sono buttati là senza neanche poter camminare per la confusione e perché non si sa dove andare. Rimangono fermi, corrono lenti. Guardano i turisti e li prendono per scecchi (asini, intesi come persone di poco intelletto).
Guardano, guardano. Che cercano? Che cosa comprano? Fotografano, consultano e sbagliano sempre strada.
Perché il migliore panellaro (venditore di panelle e crocché, tipico piatto della cucina popolare siciliana) non è per quella via, ma è nascosto in fondo alla stradina. Lì è troppo caro, e il polpo non è fresco. Tutto bello, patrimonio dell'Unesco, ma il mercato del Capo (uno dei tre mercati storici di Palermo) non è più lo stesso. I turisti questo non lo sanno.
Ci sono le memorie rimaste sul calore della strada nera recentemente asfaltata del Cassaro (quartiere centrale del centro storico palermitano, così denominato dai cittadini), di quelle puttane nudissime che dopo uno sparo correvano per vincere, furie verso Porta Nuova (una delle quattro importanti porte che circoscrivono il centro storico di Palermo), “la corsa delle Bagasce”, indecente e urlante, ultime corritrici di uno spazio oggi troppo affollato. Non c'è più spazio per i peccati e i miracoli all’aria aperta, tra poco si elegge il nuovo sindaco e dobbiamo capire come perdere meno.
Perché perdersi a Palermo è facile, dopo anni di buio la città inizia a risplendere lentamente. Camminiamo con l’intento di trovare un caffè in uno dei mercati più antichi di questa città. Prendendo viuzze (piccole vie) strette che ci portano nelle case degli altri sempre aperte e con i fornelli accesi, passiamo dall’antico chiosco ancora aperto, dove ti vendono limonate e arance come tanti anni fa, ma con il Wi-Fi gratis. Dopo la chiesa della Madonna della Mercede, sempre agghindata e disinibita come le più belle ragazze del quartiere, subito entri nel mercato “u Capu” dove la frutta spremuta te la ritrovi tonda tonda nei banconi, rossa, gialla, verde, accesa dai campi dove si coltiva ancora la terra.
Il caffè ricordiamo di prendercelo arrivati a Porta Carini, che segna l’inizio o la fine dei banchi da frutta e le friggitorie. Lì a sinistra c’è una torrefazione: fanno caffè per famiglie, single e coppie, espresso o in cialda. Lo paghi poco, come il resto, e ovviamente è buono.
Scendendo verso il mare arriviamo al terzo teatro più grande d’Europa ricordandoci di San Benedetto il Moro, nero e protettore anche lui di Palermo, africano e patrono. Neanche sacerdote, persino analfabeta. Non lo conosce nessuno e anche oggi eviterò di parlarne altrimenti lo conosceranno tutti e i palermitani si arrabbiano.
Non è vero: ti sorridono e dopo essersi stupiti della tua insolita conoscenza sulle leggende del luogo ti arricchiscono di aneddoti precisi e ti portano lì, da quel panellaro che non avevi trovato, e il polpo buono che non hai mangiato adesso te lo offre Giacomino.
Per fare il Teatro Massimo sono stati buttati giù due conventi e il monastero di San Giuliano del quale si ricorda il detto: "Avilli quantu a cupula i San Giuliano" (“Averli quanto la cupola del monastero di San Giuliano”. Che cosa? Meglio non specificare) ma ad oggi è dimenticato come le sue fondamenta. Il fantasma della suora permalosa, appartenente a uno dei due conventi, si racconta si aggiri ancora con fare da conservatore per il teatro. Queste e altre leggende sono custodite dai leoni imponenti che, come guardie, dall'alto del teatro osservano tutto, ma che essendo buoni non reagiscono mai. Tanto che a uno gli hanno staccato la coda, come il ramoscello d’argento a Santa Rosalia due anni fa durante u fistìnu (la festa di Santa Rosalia celebrata nel mese di luglio a Palermo) e le teste delle statue del Giardino Inglese e i nasi delle stagioni dei Quattro Canti, ecc.: solita cleptomania palermitana.
Dentro un luogo non identificato del Teatro Massimo c'è un buco senza fine. Si butta un sassolino senza sentirne il rumore. Va ricordato perché trovo sia suggestivo e particolare come il resto della città.
"Semu cunfusi in menzu u bene”. (“Siamo confusi in mezzo al bene.” Bene inteso come bellezza).
Di certo i palermitani non soffrono della sindrome di Stendhal: forse sono troppo abituati a dare per scontata tanta bellezza.
La frase "L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita", scritta anonima posta all’entrata del mastodontico Teatro Massimo, centrata in alto sotto la coppa, non la legge quasi nessuno. Eppure, sarebbe il caso.
Da Piazza Verdi torniamo ora ai Quattro Canti. È quasi aprile, fa buio tardi. La città prende il colore dei lampioni arancioni, percorri un rettangolo breve che è ricco ancora, emoziona e apre l’appetito.
È tutto vero ciò che ho scritto e, se volete, di presenza ve lo ridico.
A Palermo non si spara.
(Articolo pubblicato sul Volume 5 di CIAOPRAGA)