ALFRED HITCHCOCK - Il maestro del brivido
Ho sempre voluto approfondire la conoscenza della filmografia di Alfred Hitchcock, genio assoluto del cinema, in virtù del mio interesse per il mistero, rimasto a lungo in sordina a causa della mia natura di persona abbastanza ansiosa. Fortunatamente, dopo numerosi evitamenti, il destino ha voluto che Alfred ed io ci incontrassimo una volta per tutte nel 2016 e che il regista del brivido mi travolgesse completamente.
Da studentessa diligente, intenta a preparare l'esame di storia del cinema, una sera ho acceso il computer e ho scelto di guardare Vertigo: questo lungometraggio del 1958 è stato il mio "film di iniziazione”. James Stewart interpreta l’ex agente di polizia John Ferguson, innamorato di Madeleine Elster, donna dotata di grande fascino, che nasconde un terribile segreto.
Già dall’apertura, la musica di Bernard Hermann mi ha risucchiata in un limbo di incertezza, inquietudine e mistero: mi è mancato il tempo di capire quando avessi davvero varcato il confine tra realtà e finzione. Catapultata emotivamente in una visione paradossale, pian piano Ferguson ed io abbiamo ceduto, lui alle sue vertigini, io davanti alle mie fragilità, che mi hanno bloccata in un turbine d’impotenza.
Ed è proprio un senso di vertigine ciò che ho provato spesso nei miei tête-à-tête con Hitchcock e che ho riscontrato, successivamente, anche in Marnie, film del 1964, dove la protagonista è una donna incline ai furti. Situazione che non ha nulla di straordinario e che, tuttavia, mi ha coinvolta appassionatamente per un altro motivo: Marnie cela un passato irrisolto, nido del suo lato criminale.
Marnie non è tanto diversa da Madeleine: nasconde una doppia personalità, che emerge costantemente per aiutarla a scappare da ciò che la tormenta. Madeleine fugge da una vita che le sta stretta, fingendo di morire e trasformandosi in Judy Barton; Marnie, invece, ha a che fare con una controparte ben più feroce: se stessa. La vertigine, in questo caso, assume una diversa natura, annidandosi all’interno della donna e ponendola costantemente di fronte ai suoi traumi.
Se Marnie mi ha portata alla consapevolezza che la mente umana è un grande mistero e che il lato oscuro dell’uomo genera in noi un inevitabile desiderio di comprenderlo, a discapito dell’assurdo, la mia esperienza con il film Psycho (1960) ha creato un nuovo livello di paradosso. Dall’inizio alla fine della visione, il mio respiro ha subito continue variazioni, rimanendo sospeso e poi lasciando il posto ad un timido tentativo di ripresa di controllo, in un continuo andamento circolare.
Il tutto dovuto all’atteggiamento di Norman Bates, gestore del Bates Motel e figlio di una madre crudele chiamata Norma; dissidio familiare che, per un attimo, mi ha fatto credere che la questione non potesse essere più terribile di quanto già fosse. Ascoltando le discussioni tra Norman e la madre, nella mia mente mi ero già fatta un’idea dell’aspetto di questa donna e della sua meschinità.
D’un tratto, però, ho dovuto ricredermi. Norma era morta da un po’ e quindi quella voce apparentemente femminile non poteva essere altro che un tentativo di simulazione. Ancora una volta, il maestro ha colpito nel segno, trasmettendomi il senso di precarietà della vita umana: il mostro non è mai stato Norma ma lo stesso Norman, colpevole di ogni crimine e della dipartita della madre.
La maestria di Hitchcock sta proprio nel mettere tutto in discussione, nel capovolgere situazioni che si danno già per scontate, nel giocare con la nostra psiche, ingannandola. E questa è l'incertezza che ho respirato anche ne La finestra sul cortile del 1954. Stuart torna nei panni di un fotoreporter, temporaneamente in sedia a rotelle a causa di un incidente. Un giorno, spiando i vicini di casa, diviene casuale testimone di un omicidio. Il senso di impotenza e tensione è tornato prepotentemente, accompagnando il mio sguardo in una spietata caccia all’indizio, come se, al di qua dello schermo, io potessi in qualche modo aiutare Jeff a scoprire la verità.
Quando l'ordinario incontra la follia, scatta qualcosa nell'animo umano, una scintilla tanto spaventosa quanto ammaliante. Sebbene possano sembrare anomali, certi comportamenti esprimono un lato insito in ciascuno di noi, che si può sempre decidere se ascoltare o meno. Non ricordo quante volte mi sono sentita persa come Ferguson, in trappola come Marnie, divorata dalla curiosità come Jeff. So solo che sta proprio qui il fascino del cinema di Hitchcock: fa nascere in noi il desiderio di catturare la vera essenza dei suoi personaggi.
Nonostante il disorientamento, ogni singola visione ha alimentato uno spazio interiore importante, che mi ha aperto le porte al mondo “hitchcockiano” e che, successivamente, mi ha guidata alla scoperta di altri film, aiutandomi ad acquisire una maggiore consapevolezza, soprattutto personale. Smascherando il lato più buio della psiche umana, inevitabilmente si impara a conoscere maggiormente se stessi.
In copertina: Vertigo
(dettaglio della locandina)