SULLE ORME DI MONTAIGNE – L’arte della leggerezza

SULLE ORME DI MONTAIGNE – L’arte della leggerezza

440 anni dopo Michel de Montaigne, giorno per giorno e seguendo lo stesso itinerario, ho ripercorso le sue orme per fuggire dal mondo di Trump, del Covid e degli algoritmi. 2500 chilometri da Bordeaux a Roma percorsi in oltre cinque mesi, da giugno a dicembre 2020, a cavallo della mia giumenta Destinada. Questo è un estratto del mio diario di viaggio.

Gaspard e Destinada

Gaspard e Destinada

Nella vita quotidiana amo i palazzi rococò, le giacche di lino e i club inglesi. Insomma, sono uno snob, come nella canzone di Boris Vian, che recitava:

"Sono uno snob
vado a cavallo ogni mattina
perché amo l'odore dello sterco". 

Tuttavia, dopo due mesi di viaggio “col culo in sella” – come scriveva elegantemente Montaigne – ho dovuto rivedere le mie convinzioni. Costretto e forzato, ho appreso l'opposto dello snobismo: l'arte della leggerezza.

Per alleviare la mia cavalcatura, il mio bagaglio è stato ridotto all'essenziale: due magliette, due slip, due paia di calzini, due pantaloni, abbigliamento antipioggia e una tenda da seicento grammi. A pensarci bene, perfino la camicia da custode mi sembra superflua e potrebbe finire in stracci.  

Condivido il kit di pronto soccorso con la mia cavalla (compreso il termometro: disinfettare dopo l'uso).

La mia attrezzatura da maniscalco è stata accorciata senza pietà con un seghetto. Anche la mia forchetta in acciaio inossidabile era stata tagliata a metà per risparmiare peso; alla fine me ne sono sbarazzato: a cosa serve una forchetta quando hai un cucchiaio?

Il mio corpo ha accolto questo processo di alleggerimento, perdendo senza sforzo i quindici chili in più. Come Montaigne, riesco persino a dimenticare il mio dolore (malattia della pietra per lui, tinnito per me). Quanto a Desti, non ha una fibbia inutile sulla sella, i cui quarti sono stati sacrificati per fare spazio a semplici paraurti, mentre la rete si trasforma a piacimento in cavezza.

Da questa attenzione alla purificazione in ogni ambito, scaturisce una forma di estetica.

Nonostante i buchi che iniziano a fare capolino, le mie magliette in lana merino sono di una sobrietà raffinata. I miei jeans hanno il bellissimo aspetto del vero denim (i giapponesi lo hanno recentemente riportato in voga). Il mio morbidissimo cappello australiano è segnato dai graffi dei rami e la pelle della sua imbracatura risplende al sole.

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Cowboy, dov'è la tua colt?”, mi ha urlato uno scavatore mentre attraversavo la Marna. Tuttavia, non ho cercato di camuffarmi. Obbedendo ai rigidi canoni dell'equitazione, ho adottato spontaneamente lo stile degli allevatori di bestiame. In mancanza di una colt, estraggo il mio coltellino svizzero.

Non avendo nulla di troppo, non mi manca nulla.

È una soddisfazione che Montaigne, lettore degli stoici, conosceva bene: “Bisogna avere una rara sensibilità per gustare i beni della fortuna. È il gustarli, non il possederli, che ci rende felici”.

Assaporo ciò che mi viene offerto durante il percorso, sapendo che non porterò nulla con me. Non avendo più una residenza fissa, sfuggo alla tentazione di accumulare.

Quando il Comune di Epernay mi ha chiesto di compilare un modulo di autorizzazione per i diritti d'immagine, ho indicato come domicilio: “itinerante”. Mi è sembrata la risposta più precisa.

Perché questa domanda viene posta così spesso? Non siamo "a casa" ovunque ci sistemiamo?

Ho perso l'abitudine di tirare fuori le chiavi dalla tasca. Ho dormito in yurta, tenda, roulotte, tepee, in una casa mobile, in un soggiorno in costruzione, in un dormitorio di vendemmiatori, in un rifugio per pellegrini abitato da pipistrelli...

Un tetto e una fonte d'acqua bastano per rendermi felice.

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L'unica cosa che conta per me, adesso, è il calore dell'accoglienza.

Condivido, quindi, il disgusto di Montaigne per l'abbondanza: la miseria del nostro tempo: ”Non è la carestia – scrive – ma piuttosto l'abbondanza che produce avidità”.

Con il mio ago e il mio filo, è ormai per me una questione d’onore riparare piuttosto che ricomprare.

Il mio rapporto con il denaro si è invertito. Da snob, spendevo generosamente. Ora, invece, esamino attentamente ogni etichetta. Non per guadagnare "potere d'acquisto" ma, al contrario, per avvicinarmi al giusto prezzo: quello pagato dal produttore piuttosto che dagli intermediari.

Pagare cinque euro per una "insalata fresca" in plastica quando puoi, nello stesso negozio, comprare due pomodori, uova e un cetriolo per tre volte di meno, mi sembra il massimo della vanità. Non è, in fin dei conti, questo il vero senso dell’economia? Scienza dello scambio contrapposta da Aristotele alla crematistica, intesa come mera smania dell’accumulare?

Lo spogliarsi dei beni materiali corrisponde a un alleggerimento emotivo. Ho tutto il tempo per pensare ai miei cari, tutto il tempo per rassicurarli del mio amore, ma non mi mancano, nel senso che la mancanza è un sentimento triste, un sintomo di incompletezza.  

“Bisogna avere moglie, figli, beni e soprattutto salute” – raccomanda Montaigne –  ”ma non attaccarvisi in modo che la nostra felicità dipenda da essi, perché la cosa più grande del mondo è saper essere per sé”.

Questo solipsismo è tutt'altro che egoismo. È un modo di essere in armonia con se stessi, autonomo, libero, che permette a tutti di aprirsi meglio agli altri.

Quando un amico mi accompagna nel mio percorso (spesso in mountain bike, un buon modo per seguire un cavallo), mi rallegro. Quando mi saluta alla stazione, lasciandomi solo sui binari, non provo alcun rimpianto, nemmeno la minima angoscia.

Entro nella mia stanza sul retro, come diceva Montaigne, che mi attende freschissima, pulitissima, con la promessa sempre mantenuta di un lungo monologo interiore. Non è, questo, lo scopo stesso del viaggio: ”concederti tutto il tempo per prenderti cura di te stesso”?

Al contrario, il vortice relazionale in cui ci immerge la società, le migliaia di amici virtuali che ci "piacciono" fin dentro le nostre camere da letto, non testimoniano una debilitante incapacità di stare da soli?

Perché stiamo scappando da noi stessi?

Ciò che vale per il corpo, vale anche per la mente. A poco a poco, ho razionato il mio cibo spirituale. Ho rinunciato ai giornali ma anche ai libri; in otto settimane ne ho letto solo uno sul mio Kindle (Bartabas, di Jérôme Garçin), per mancanza di tempo ma anche di voglia. Ora preferisco cucire una cartella, studiare il mio percorso o far pascolare la mia cavalla.

”Adempiere riccamente al voto di povertà, aggiungendovi quello dello spirito”, scrive Montaigne, che odiava studiosi, pedanti e somari pieni di sé.

Bisogna saper coltivare la propria esperienza dimenticando per un po' i cumuli di studi e analisi accademiche, troppo accademiche, i cui concetti sofisticati si trasformano in paraocchi.

L’erudito Montaigne sapeva anche come respingere i pensieri degli altri.

A cosa pensiamo in viaggio, dalle sei alle otto ore al giorno? A mille sciocchezze logistiche. A poche ossessioni che tornano, palpitanti. A grandi domande senza risposta. Ma anche a niente.  

Questo è il miracolo del pensiero in movimento, un piacere gratuito ricercato da Rousseau a Houellebecq, passando per Nietzsche: far volare la mente.

Ad esempio, mi sono ritrovato a diventare musica. Mentre lasciavo Loisy-sur-Marne, per dieci minuti buoni nella mia testa ha risuonato, in un continuo loop, solo una melodia lenta e seria: l'ultimo movimento dell'ultima sonata di Beethoven (l'irraggiungibile opus 111). Lo scalpitio degli zoccoli teneva il tempo. Desti era un direttore d'orchestra e il mio subconscio un concertista. Mi sono risvegliato mentre mi avvicinavo a un ponte sulla Marna, sazio di nulla.

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Non voglio fare del minimalismo una regola di vita assoluta: baro un po'.

Invece di sandali Au  Vieux Campeur ho portato con me delle furlane: pantofole veneziane con suola di gomma e tessuto di velluto, modello Modigliani, colore "viola anarchico". Le indosso ad ogni passo. È con queste scarpe cardinali che mescolo il fieno e piscio sui rovi.

Mi scuserete per questa ricaduta discreta e tuttavia snob: sogno di gustare, al mio ritorno, un whisky affumicato in un club inglese ma, così come gli stoici indugiavano in cure volontarie di povertà, continuerò a riservarmi spazi o tempi di alleggerimento.

”Antifragilità!”, esclamerebbe Nassim Taleb, consigliandoci di coltivare una rigorosa resilienza, costruendo un rifugio materiale e morale dove rintanarci in tempi di crisi. ”Sapienza”, direbbe più semplicemente Montaigne, che la definì una ”gioia costante”...

In copertina: Gaspard e Destinada
immagini per gentile concessione di Gaspard Koenig

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