LETTURE ESTIVE - Tra fiori freschi, ciliegie acerbe e ritorni al passato
Come se stessi giocando a strega comanda colore mi sfido a catturare in pochi sguardi i contrasti tra i fiori sgargianti e l’intenso azzurro del cielo, almeno fino a quando i primi non cedono il passo ai mattoni rossi di Imola. Tutto è, davvero, a portata di mano. Penso sempre che sia in questa stagione, in questo momento dell’anno, che i poeti diventano poeti. Poi ci rifletto e mi dico che è una cosa melensa da pensare e da scrivere, ma a quel punto sono già davanti alla mia libreria di fiducia, pronta a scegliere le prossime letture.
E una volta selezionate, mi trovo con le ciliegie ancora acerbe – come quelle che preferiva Pavese – e i piedi sollevati sulla sdraio. Giugno porta per me la nostalgia, me la attacca addosso come fa il primo caldo. Ripenso al perché della poesia, e poi alla Calabria, che starà iniziando a svegliarsi mentre io non sono più lì. Mancano tante cose quest’anno, così diverso dai precedenti; e allora non è un caso, credo, che le letture che mi sono rimaste addosso ultimamente, portino l’amaro della salsedine ma anche della mancanza e della nostalgia.
I CONFIDENTI di Charlotte Gneuss
Mentre prendo il primo sole mi chiedo quanto sia difficile e doloroso e gratificante mutare un dolore privato in una storia polifonica. In un sottotesto amaro e discreto, Charlotte Gneuss racconta la Repubblica Democratica Tedesca attraverso l’adolescenza di Karin, dal suo amore acerbo e già perduto alla lotta ingenua per soffocare l’assenza. Karin, sedicenne di Dresda, inizia a collaborare coi servizi segreti dopo che il suo ragazzo scappa dal comunismo per raggiungere l’altra Germania, l’altra Europa. La ragazza tenta maldestramente di tenere sotto controllo la vita a casa, gli amici e i loro segreti, una famiglia che si sgretola, così come le sue certezze nel perdersi – sempre più a fondo – tra le pieghe dei servizi di controllo. Un romanzo di formazione e di mancanza, d’impossibilità dell’avere indietro e impossibilità di ritornare sui propri passi, di errori che diramano in mille altre direzioni un percorso già incerto: come sporcarsi le scarpe, ad ogni passo un po’ di più, mentre si cammina su un terreno fangoso. Tornare indietro non avrebbe senso, non migliorerebbe nulla. L’angoscia dell’assenza è colmata – o almeno i ragazzi ci provano – dal contatto fisico: lasciarsi carezzare i capelli, condividere i rossetti, arrampicarsi senza le attrezzature adatte. C’è un’età in cui anche l’ingenuità può prendere pieghe spietate: è l’età dei corpi, del cercarsi, dello stare vicini e condividere porzioni di spazio minuscole per colmare l’incertezza di esprimersi, ma anche di tenersi.
FIGLI DI IERI di Elisabetta Sala
Quando lasci un paese che sa di vecchio per una città, finisci col non riconoscerti né nell’uno né nell’altra: ti senti a casa da entrambe le parti e a casa in nessun luogo. Ti ritrovi a cercare, fino a dover inventare – delle volte – un motivo per andare e poi uno per tornare. Costantino, il protagonista di Figli di ieri, lo sa bene: dalla Valcamonica degli anni Sessanta, che corrono veloci verso il decennio successivo, il bambino si trasferisce con tutta la famiglia a Milano, promessa di un futuro garantito, seppur distante dai monti. La sfida vera, in questo romanzo di formazione tenero e tutto italiano, sarà trovare un equilibrio tra l’aria di casa e le infinite possibilità della città meneghina: cambiare il mondo, cambiarlo davvero, trovare l’amore, diventare un eroe. Gli anni passano, Tino diventa un giovane uomo e mentre la vita gli scorre sotto i piedi realizza che – proprio come cantava Lucio Dalla – l’impresa eccezionale è essere normale. Ognuno ci trovi dentro il significato che va cercando. Oggi so cosa vuol dire sentirsi parte di molte cose e di nessuna, e lo so anche perché la scrittura di Elisabetta Sala mi ha fatto tremare più volte: è così raro – e liberatorio e rassicurante – trovare una corretta rappresentazione di cosa vuol dire vivere con un cuore dislocato altrove. Avrei voluto leggere questo romanzo tre anni fa.
IL GIOVANE CAIMANO di Domenico Varipapa
Ultimo passo di giugno: finalmente torno in Calabria (e ci sono tornata davvero, non solo leggendo questo libro). Questa è la storia di Rino, adolescente che decide di non uscire più di casa dopo un episodio di bullismo. Grazie all’aiuto di Gaetano, amico inaspettato e salvifico, riuscirà a mantenere una promessa fatta al nonno in punto di morte e ad attuare un piano di vendetta, che è poi un viaggio di ritorno, un po’ come il mio. Domenico Varipapa racconta quello che si trova e non quello che si cerca. Il suo romanzo ha dentro così tanti elementi che sviscerarli tutti mi è difficile. C’è la maestria del togliere il malocchio, che le donne del sud imparano la notte di Natale. Mia nonna ogni anno mi diceva che doveva passarmela, quest’arte, ma non abbiamo fatto in tempo: lo stesso tempo andato, non recuperabile, che ritrovo in questo romanzo. Ritorna l’assenza, feroce e liberatoria assieme. Quante cose scivolano via dalle mani! Quanto è difficile tenere la vita che scorre tutta insieme se ti allontani dall’origine del moto. Compare anche Berlusconi, che nella storia di Rino ha un ruolo fondamentale, come del resto lo ha avuto per un’intera generazione, forse anche due, ché quando muore sembra davvero, come dice Rino, che tutto è proprio finito. Ma soprattutto c’è la Calabria, e il ritorno al mare. Dal nome dei due amici – Rino e Gaetano – al suono delle onde, al dialetto stretto, allo sfascino: tutto racconta di un luogo che si tiene in piedi su trame proprie. È lo stesso luogo-non luogo che ho disconosciuto per anni e che mi commuove ogni volta che ritrovo su pagine non mie.
Come ho scritto, è stato un giugno di mancanze, che ho cercato nelle storie altrui per metabolizzare la mia, per fare pace con le cose che mi scorrono via dalle mani e che non potrei tenere insieme nemmeno volendo. Ci sono persone, cose, luoghi e lavori che cedono il passo, che lasciano un vuoto dentro. Io lo colmo coi fiori freschi e le ciliegie acerbe; mi dico che tutto deve continuare a procedere, che dall’assenza può nascere ancora qualcosa.
Se osservo il cielo e i colori che si contrastano, ‘i giorni lunghi e le notti chiare’ (come scriveva Carducci) non posso che ripetermi che la mancanza può anche essere un modo per fare spazio. Tutto è possibile, nel mese in cui i poeti diventano poeti.