CLAUDIO PITTAN - L’artista del tatuaggio giapponese
Vent’anni fa sembrava potesse essere poco più di un hobby, al massimo un secondo lavoro. Oggi, invece, quella del tatuatore è una professione rinomata e stimata e molti sono diventati famosi, alla stregua di architetti, designer e manager di successo.
Claudio Pittan tatua dal 1983 e, quando ha iniziato, a Milano erano solo in sette. Oggi è considerato uno dei più importanti tatuatori in Italia e ha vinto due volte il premio come miglior tatuatore del nostro Paese.
L’ho incontrato per conoscere meglio la sua storia.
Claudio Pittan e il tatuaggio giapponese
Nel 1983 Claudio Pittan ha 17 anni e tatuare è una cosa strana, oltre che una pratica poco diffusa. Claudio però è un punk rocker e, frequentando questo ambiente, si avvicina progressivamente al mondo del tatuaggio, viaggiando anche molto on the road tra Germania, Olanda e Regno Unito.
“Negli anni ’80 c’erano frontiere, monete e modi di viaggiare differenti. Ero un adolescente punk e avevo pochi soldi. I tatuaggi erano un modo per distinguersi dalla massa e rifiutare i modelli convenzionali della società”.
Dopo essersi fatto i primi disegni sulla pelle, vuole iniziare lui stesso a tatuare, ma trova un ambiente diffidente. In molti Paesi quest’arte è proibita e, in generale, non è ben vista. Intorno a questo mondo c’è riservatezza e ostilità, anche da parte dei tatuatori, nei confronti di chi vuole iniziare a praticare questa professione. Non esistono negozi, rivenditori autorizzati, e imparare sembra quasi una missione impossibile.
Nel frattempo si laurea all’Accademia delle Belle Arti di Brera e inizia a considerare il tatuaggio oggetto artistico ed irreplicabile. Frequenta diverse convention e raduni di tatuatori, finché ne conosce uno giapponese, Horiyoshi III, dal quale vorrebbe farsi tatuare.
L’artista gli dice che, per questo progetto, Claudio deve recarsi in Giappone, e lui non ci pensa due volte. Con la sua ragazza, scrivono una lettera a Horiyoshi, raccolgono i loro risparmi e, dopo aver ottenuto un appuntamento, partono alla volta dell’Asia con l’intenzione di restarci un mese.
Yokohama e l’incontro con Horiyoshi III
Horiyoshi III non è il nome reale del tatuatore. In Giappone, diventare tatuatore richiede un vero e proprio processo, in quanto la professione è molto radicata alle sue tradizioni. I maestri hanno un nome che corrisponde a una specifica famiglia di tatuatori. Colui che la inizia, tramanda ai suoi discepoli il nome, facendo seguire al nome della dinastia un numero progressivo, per poterli distinguere nel tempo e far sì che il nome del maestro non sia mai dimenticato.
Per diventare un tatuatore in Giappone, è necessario studiare per cinque anni con il proprio maestro, cucinare per lui, aiutarlo nella vita quotidiana e diventare un suo “discepolo”.
“Una volta arrivati nello studio del maestro - racconta Pittan - lui mi disse che ci sarebbero voluti sei mesi per il tatuaggio. Io, però, avevo solo un mese di tempo e decisi di farmi tatuare tutti i giorni. Horiyoshi fu obbligato, a causa delle tempistiche ristrette, a ripassare su zone della pelle ancora arrossate e doloranti, in modo che fosse possibile terminare il lavoro in tempo. Il disegno occupa tutta la schiena ed è stato fatto con una macchinetta dotata di ago per le linee semplici, mentre le parti più complesse sono state realizzate con una lunga asta manovrata a mano. Non ho mai provato un dolore così intenso in vita mia, ma era il prezzo da pagare per avere un tatuaggio di quel tipo in così poco tempo”.
Dopo il Giappone, Pittan torna in Italia. Si innamora definitivamente dell’arte del tatuaggio giapponese e ne scopre i segreti, la tradizione ed il simbolismo che si nascondono dietro a ciascun disegno.
Le origini
Il tatuaggio giapponese moderno nasce dopo il medioevo. In particolare, quello che assomiglia all’attuale, ha origine nel 1500.
Inizialmente, sono gli incisori a fare i tatuatori. Abili nello scolpire il legno, creano calchi finemente lavorati, pensati per le stampe, che in seguito vengono riprodotti sulla pelle di chi vuole farsi tatuare direttamente dagli incisori stessi. Da qui in poi, l’arte giapponese del tatuaggio ha iniziato a prendere piede. Le realizzazioni sono sfarzose e chi le ha impresse sulla pelle fa a gara nel mostrarle con vanto.
Ne sono un esempio gli yakuza, che nel XVI secolo sono per lo più giocatori d’azzardo. Quando, in seguito, diventano il simbolo della mafia giapponese, il tatuaggio rimane nella loro tradizione, per sottolineare la ribellione e la trasgressione insita nei loro comportamenti.
In seguito, l’inchiostro sulla pelle prende piede e si diffonde in tutto il Giappone.
Il simbolismo
Tra i simboli più diffusi troviamo il fiore di ciliegio, che rappresenta l’impermanenza; sboccia a primavera e dura pochissimo, perché spazzato via da pioggia e vento. Il sakura (questo il suo nome in giapponese) rappresenta una realtà attraente ma effimera, transitoria.
Le peonie sono invece considerate tra i fiori più belli. Servivano nel passato come ornamento delle corazze dei samurai, che nascondevano possibili ferite mortali. Allo stesso tempo, vengono rappresentate in alcune carte di giochi d’azzardo e simboleggiano, inoltre, le persone fuori dagli schemi o esuberanti.
Per Pittan, il simbolismo è parte integrante del tatuaggio giapponese:
“Per i giapponesi è fondamentale la stagionalità e l’abbinamento dei soggetti rappresentati nelle figure tatuate. Il tatuaggio principale è quello fatto sulla schiena e gli altri sono un accompagnamento di contorno. Queste figure sono quasi delle scelte obbligate, che servono a mantenere il simbolismo. Tale aspetto non è ancora chiaro in tutto il mondo e poche persone ne sono a conoscenza. Gli unici modi per saperne di più sul tatuaggio giapponese restano quelli di averlo studiato tanto, come ho fatto io, oppure essere discepoli di un maestro giapponese. Spesso nemmeno la popolazione giapponese conosce a fondo i significati specifici di alcuni aspetti della loro cultura, talmente sono nascosti e ricercati. In molte convention mondiali sul tatuaggio, spesso si parla ancora di tatuaggio orientale in generale, mentre di rado si tratta il tatuaggio giapponese nello specifico”.
È, inoltre, importate sottolineare come il tatuaggio giapponese tradizionale tenda a voler rappresentare persone reali, poco conosciute al grande pubblico, ma con caratteristiche ben precise che danno una forte connotazione al personaggio stesso, al fine di raccontare una storia con le immagini.
Ieri e oggi
Ancora oggi il tatuaggio, non solo quello giapponese, è malvisto in molti luoghi del mondo. Basti pensare che a New York l’inchiostro sulla pelle è ritornato legale solo a partire dal 2001, o che in Giappone le persone tatuate non possono entrare nei luoghi pubblici, come le terme.
Sottolinea Pittan:
“Oggi si guarda più che altro all’aspetto estetico del tatuaggio e non al suo significato intrinseco. Quando ho iniziato a tatuare, negli anni ’80, non credevo ci sarebbe stata questa diffusione su larga scala. Io credo ci sia sempre un evento che ti porta a fare un tatuaggio, una forte emozione che ti induce a fissare quel momento e, per me, un tatuaggio resta sempre una scelta importante. In ogni caso - prosegue - ci sono due tipi di persone che si fanno tatuare. Chi si fa un tatuaggio piccolo a scopo estetico e chi si appassiona e di solito si tatua ampiamente, cercando un significato profondo nell’inchiostro e nei disegni che sono impressi sulla pelle. A far prosperare il mondo del tatuaggio sono queste ultime”.
E riguardo all’attuale proliferare dei tatuaggi, aggiunge:
“Nel tempo, il tatuaggio ha trovato applicazione anche nel mondo della comunicazione ed è usato sempre di più come strumento di marketing, anche se a me non piace l’idea che venga utilizzato solo a scopo economico. Vedo sempre di buon occhio chi cerca di rinnovare e portare nuova linfa, mentre non apprezzo particolarmente chi sfrutta la gente che si vuole tatuare.”
Il cambiamento
In quasi quarant’anni di carriera, Caudio Pittan ha saputo resistere e rinnovarsi continuamente, mentre gli old timers e chi in genere tatua da tanto tempo, sono stati spesso travolti dall’innovazione tecnologica e si sono sentiti spaesati, in una realtà tendenzialmente molto giovane.
Lo Studio Pittan a Milano prospera e continua ad innovare, restando fedele al tatuaggio giapponese, vero core business di cui il titolare è innamorato.
“La mia generazione - afferma Pittan - ha il merito di aver avviato un rinnovamento di stili artistici come il new school e i tribali, portandoli poi in giro per il mondo, senza mai trascurarne l’aspetto antropologico. Un esempio è la mia collega Sonia Giottoli, esperta dello stile tribale, che è stata per tre mesi in Nuova Zelanda studiando da un tatuatore che faceva ancora i tatuaggi a mano e vivendo insieme ai Maori, in un contesto sociale molto particolare. Il mio augurio, per il futuro, è che il tatuaggio possa tornare ad essere inteso da tutti come lo era negli anni ‘80, quando ho iniziato, ma non credo che questo sia possibile”.
La storia di Claudio Pittan evidenzia come la crescita del mondo del tatuaggio sia ancora oggi difficile da stimare. L’aspetto certo è il fatto che le persone veramente appassionate, che vanno oltre gli stereotipi e coltivano quest’arte, riescano a farla apprezzare anche a coloro che non sono appassionati alla materia.
Oggi sempre più persone imprimono disegni sulla pelle per ragioni estetiche, per ricercare e comunicare la loro identità, per segnalare l’appartenenza a un determinato gruppo o anche per celebrare un rito di passaggio.
Ai nostri tempi però il tatuaggio, a differenza del passato, è una scelta individuale. Non ci sono linee guida comuni, principi condivisi o concetti unitari. Ognuno sceglie singolarmente quello che vuole, in base alle proprie preferenze, al suo modo di essere e a come si sente in quel momento. Ed è anche grazie all’aspetto “individualista” che la moda dell’inchiostro sulla pelle è esplosa e non accenna a fermarsi.
In copertina: alcuni dei tatuaggi di Pittan
immagini per gentile concessione dell’artista